Regia di Karim Dridi vedi scheda film
Dopo aver letto alcune opinioni del pubblico francese e le critiche quasi tutte negative della stampa d’Oltralpe, mi sono accostato a questo film con ovvia perplessità. Ho invece assistito ad uno spettacolo di alto livello e credo che “L’ultimo volo” meriti una diversa valutazione. Comincio con il dire che fotografia e ambientazione basterebbero da sole a giustificare il prezzo del biglietto. Molte voci si sono alzate per criticare la lunghezza e soprattutto la lentezza della pellicola. A me viene da dire che quelli sono i tempi del deserto, quello è il ritmo delle carovane. Mi torna in mente “La prigioniera del deserto” (1989) del reporter e documentarista Raymond Depardon, film interpretato da una grandissima Sandrine Bonnaire, ambientato nel deserto e praticamente privo di dialoghi e sceneggiatura. Anche in quel caso, le critiche inferocite non mancarono e si possono comprendere anche senza condividerle. Qui, però, la storia c’è, c’è l’avventura, ci sono personaggi ben caratterizzati, c’è una buona colonna sonora. Allora, m’interrogo sul perché di tanta delusione da parte di critica e pubblico. Forse, da un film che parla di colonialismo, di tribù tuareg, della difficile alleanza tra Francia e Inghilterra negli anni ’30 ci si aspettava più azione, una maggiore vis polemica e – perché no? – un maggiore approfondimento politico. Tutte cose che evidentemente non rientravano negli intenti dell’autore che adatta allo schermo un romanzo (“Le dernier vol de Lancaster” di Sylvain Estival) e racconta una vicenda realmente accaduta. Qualcuno, poi, ha tacciato il film di polpettone melodrammatico e questa mi sembra l’accusa più assurda. Marie Vallières de Beaumont, giovane aventuriera e aviatrice piomba con il suo aereo in una remota zona del Sahara presidiata da meharisti francesi. E’ in cerca del pilota inglese che ama e il cui velivolo dovrebbe essere precipitato nei paraggi. La donna si scontra con l’ottuso capitano dell’avamposto, per nulla disposto a rischiare l’incolumità dei suoi uomini nella ricerca di uno sventurato, per giunta suddito di Sua Maestà britannica e probabilmente già defunto. Come se non bastasse, l’aviatrice perde il suo velivolo nel corso di una tempesta di sabbia. Trova però aiuto nella figura del luogotenente Antoine Chauvet, un idealista deluso dall’esperienza coloniale e in aperto conflitto con i suoi superiori. Il giovane militare ama l’Africa e intrattiene una tenera relazione con la sorella di un capo tuareg. Marie e Antoine intraprendono una rischiosa e disperata peregrinazione nel deserto. A questo punto, lo spettatore si aspetterebbe una storia d’amore tra i due. Invece niente. Nasce una forte amicizia, una reciproca solidarietà basata sul rispetto e sulla reciproca conoscenza. Di melodramma neppure l’ombra. Marion Cotillard e Guillaume Canet, compagni nella vita, danno vita a due personaggi di notevole spessore umano, mettendo da parte ogni deriva sentimentalistica. Altro motivo d’interesse di questo sottovalutato film è stata per me l’attenta e dettagliata osservazione del ruolo dei dromedari nella vita quotidiana dei tuareg e dei meharisti. Solida e affidabile “nave del deserto”, il dromedario è uno splendido e docile animale che partecipa con distacco e fedeltà ad avventure estreme. Il regista si sofferma a lungo sui primi piani e sul blaterare di mezza tonnellata di muscoli e ossa issate su quattro esili zampe. Uno spettacolo assai istruttivo che fanno di questi straordinari personaggi l’attore in più nella vicenda narrata. Potrei continuare con il ruolo di capre e cavalli, con i costumi dei tuareg, le tende da campo, le uniformi francesi e altro ancora per salutare un bel film d’avventura, che ricorda grandi titoli del passato. Forse è un cinema che non piace più molto. Io ne ho una certa nostalgia.
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