Regia di Alexander Kluge vedi scheda film
La tecnologia offre all’arte e allo spettacolo spazi e tempi propri, in cui passato e presente, qui e altrove si compenetrano, facendo passare in secondo piano le reali dimensioni del mondo e della storia. Così i diversi luoghi e momenti diventano, semplicemente, spunti creativi da tradurre in composizioni di suoni, testi ed immagini, unendo natura ed artefatto computerizzato. Nell’epoca di You Tube e dell’instant messaging l’estetica prevalente è quella della sintesi, ma non per questo la comunicazione verbale e visiva deve essere basata su abbreviazioni e simboli convenzionali; occorre affidarla, invece, alla densità e complessità dei significati. Il moderno compito dell’artista consiste anzitutto nello scegliere o realizzare contenuti che siano efficacemente rappresentativi dei concetti e dei fenomeni che si intendono descrivere. Ciò presuppone una preliminare opera di “campionatura” dell’esistente, di ciò che è direttamente osservabile e di ciò che, invece, appare impresso su pellicola. Questi frammenti di cinema sono le tessere del collage firmato da Alexander Kluge, che, in questa caleidoscopica forma, ci propone la sua personale antologia del Novecento, tra storie individuali e collettive, vere o inventate. La base del mosaico è un canovaccio su cui è impresso lo schema delle categorie universali (la guerra e la pace, l’amore e l’odio, la vita e la morte, la felicità e la disperazione), che il regista riempie con variegati sprazzi di ricordi, sogni ed incubi, tratti dalla cronaca di un secolo cupo e inquieto, che ha fatto volgere in tragedia i drammi romantici dell’Ottocento. Le citazioni musicali di Bellini e Wagner fanno da contrappunto alle scene di devastazione morale e materiale, che testimoniano la morte del sentimento (“An experiment in love” sulla sorte di due amanti in un campo di sterminio, “Das Verhältnis einer Liebesgeschichte zur Geschichte”, su un matrimonio interrotto dalla chiamata al fronte), dell’ideologia (una manifestazione contro il riarmo nucleare si traduce in una fila chilometrica davanti ai bagni di un hotel), del mito del progresso tecnologico (il disastro di Chernobyl) e della crescita economica illimitata (l’intervista ad un produttore di farina animale, che in nome del profitto non esita a mettere a rischio la salute pubblica). Più che un nuovo genere cinematografico, quello di “Mio secolo, mio mostro!” sembra un nuovo modo di far parlare il cinema, sostituendo all’assolo dell’opera unitaria, il coro delle voci di repertorio, riesumate dall’archivio e chiamate ad intonare una melodia inedita. A dirigere il concerto è lo stesso autore, animato non dalla personale nostalgia, bensì dalla consapevolezza che non solo ciò che è stato scritto, ma anche ciò che è stato filmato ha un valore di per sé, duraturo ed immutabile, ma comunque aperto alle interpretazioni sempre nuove che ogni epoca vi vorrà dare.
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