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The Karate Kid. La leggenda continua

Regia di Harald Zwart vedi scheda film

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La recensione su The Karate Kid. La leggenda continua

di rflannery
4 stelle

Fiacco pseudo remake di un film culto degli anni '80, quintessenza del cinema per adolescenti tutto ingenuità, sanità morale e riscatto. Insomma: il Sogno Americano, celebrato a colpi di karate, viene trasportato, mutatis mutandis, nella Cina profonda e, quel che è peggio, ridefinito quanto a età del protagonista. Già: perché se il memorabile Ralph Macchio combatteva e litigava per la fidanzata e subiva le oppressioni di un gruppuscolo di sedicenni, il nuovo eroe, politically correct, e cioè nero, bellissimo e figlio di un attore di successo (Jaden Smith, già un piccolo divo, è figlio di Will Smith con cui ha recitato in La ricerca della felicità), di anni ne ha 10 scarsi. Eppure si comporta come il Macchio macho di cui sopra, e cioè vive una straordinaria storia d'amore con una coetanea cinese e per lei, zuffa dopo zuffa, abbraccerà, condotto dal fido (e visibilmente invecchiato) Jackie Chan le arti marziali. Ironia a parte, il remake è falso e bugiardo. Falso a partire dal titolo perché il karate in realtà è kung fu, ma forse noi profani possiamo aver anche frainteso. E bugiardo perché la storia, trasferita in altra sede e non più ambientata nel mondo degli adolescenti ma in un mondo terribile, di bambini che imitano adolescenti che giocano a fare gli uomini, non ha né l'ottimismo né la forza cinematografica del vero Karate Kid, quello di John G. Avildsen, il regista di Rocky, uno che di ottimismo, impegno e sacrificio se ne intendeva eccome. Né, ahinoi, l'onestà di un prodotto semplice di intrattenimento. Troppo lungo (2 ore e venti abbondanti), per un intreccio molto esile, il nuovo Karate Kid, pur in una confezione di livello, è un prodotto per teenager che strizza anche più di un occhio al mercato sconfinato d'Oriente. Basti ricordare su tutte una scena esemplare della correttezza politica applicata al cinema: Jackie Chan che ricorda all'amico americano di spegnere con il bottone lo scaldabagno. Usa il bottone e rendi il pianeta più pulito, sentenzia il grande Jackie, dimenticandosi forse di essere in Cina e non da qualche parte in Europa. Una battuta che non sfigurerebbe in un film comico e che invece, no, è davvero presa sul serio e segna in modo indelebile il tono di un film apparentemente pulito, rispettoso delle diversità e delle arti marziali, ma che in realtà si fa beffe del titolo originale e forse anche del tema ispiratore e dominante: il tema della libertà. Libertà di essere, di esserci, di poter esprimersi contro un Potere, rappresentato con efficacia sotto forma di un nonnismo crudele. Una libertà, che in piena Guerra Fredda, era (e forse lo è ancora) possibile solo in America dove tanti film di questo tipo uscirono per il mercato dei più giovani lungo tutti gli anni 80. Ritrovare anni dopo un film dallo stesso titolo, ambientato in Cina e ridotto a pura affermazione fisica, a semplice successo personale, suona avvilente per non dire pegio. Ed è strano, davvero strano che in pochi si siano accorti di questa strana contraddizione: il Paese in cui più di tutti oggi la libertà è negata è coinvolto, anche produttivamente, nel rifacimento di un piccolo, grande film di libertà, svuotato di qualsiasi riferimento scomodo

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