Regia di Harald Zwart vedi scheda film
Karate Kid, in questo pseudoremake firmato da Harald Zwart, è un prodotto decisamente duro da recensire. Per chi ha visto la versione con Ralph Macchio e Pat Morita, il naso si storce in maniera quasi automatica già all’annuncio del semiremake. Come si noterà non ce la faccio proprio a parlare di rifacimento. Difatti, qui non siamo difronte né ad un omaggio (come per esempio nel caso dello Psyco di Van Sant), né alla reinterpretazione. Probabilmente chi conosce l’archetipo e ha deciso di sorbirsi questo surrogato, catalogherà questo film come un’operazione commerciale che scava nell’animo dei nostalgici, sfrutta il mito, cavalca l’ondina del vecchio film che ancora resiste, stuzzica la fantasia. Per chi in particolare ama la versione originale, poi, questo film è come una iena che strappa irrispettosamente brandelli di carne da una carcassa; e soprattutto è come se lo facesse non per sopravvivere, ma per il semplice pavoneggiarsi. La metafora è forte, ma il senso di sgomento che sopraggiunge sui titoli di coda lo è altrettanto. Chiara (e non più sorprendente) la voglia di fare cassa, ma che senso ha svuotare l’originale “Per vincere domani” dell’ambientazione (Cina e non più provincia americana), dei valori alla base della sceneggiatura (si combatte non per amore, ma per bullismo puro) o addirittura sostituire l’arte marziale che dà il nome al film, col Kung-fu? Sono questi gli interrogativi inevasi, che fanno schiumare rabbia più ancora di alcuni “aggiustamenti” gratuiti del film (il giubbetto da appendere al posto del panno con cui “dare e togliere la cera” o il letale colpo dello scorpione a sostituire quello della gru). Si rifletta poi sul fatto che tuttavia alcuni elementi fondanti di Karate Kid (l’originale) sono stati tenacemente tenuti (il carattere odioso della mamma, quello spietato del maestro del dojo, la solitudine del maestro di Dre (che vernicia auto e prende mosche con le bacchette); per cui il film rimane un mistero, un mix indecifrabile in cui c’è da sottolineare l’inadeguatezza del piccolo Jaden Smith, che con mossette da figlio di buona famiglia tradisce l’inclinazione propria del personaggio, la deriva di Jackie Chan (che dopo aver tentato di sdoganare il genere “arti marziali” – per anni identificato con i film di Bruce Lee, stavolta lo affronta con seriosità, rinnegando un certo stile costruitosi per anni). Menzione speciale, questa si, degna, del combattimento di Chan con la cricca di bulletti cinesi: da applausi!
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