Regia di Delbert Mann vedi scheda film
A metà anni Cinquanta, più o meno in concomitanza con la fine dell'esperienza maccartista, emerse, negli Stati Uniti, una generazione di nuovi autori, che si erano fatti le ossa soprattutto nel teatro e nella televisione, i cui lavori vennero portati anche al cinema da un piccolo gruppo di registi intellettuali e coraggiosi, che si erano formati politicamente nel periodo del New Deal. Tra questi nuovi autori - drammaturghi e sceneggiatori - emerse Paddy Chayefsky, un ebreo di origini ucraine, nato nel Bronx, a contatto con le più numerose ed attive minoranze etniche dei suburbi newyorkesi: ebrei di ogni provenienza, slavi, irlandesi ed italiani.
Proprio tra gli italiani è ambientato questo Marty, sceneggiato dallo stesso Chayefsky ed affidato, per la regia, ad un corretto allestitore e buon direttore di attori come Delbert Mann. Sulla lapide di Chayefsky (1923-1981) si legge "rinomato scrittore, drammaturgo ed umanista", ed è proprio quest'ultima sua attribuzione che emerge in Marty, poiché al centro dell'attenzione sono proprio gli esseri umani, alle prese con i propri drammi sociali e (prima ancora) personali, in un contesto di realismo che niente concede alle convenzioni hollywoodiane che, a metà anni Cinquanta, si concentravano ancora sui generi e sui divi. Rifiutando ogni manierismo, questo di Chayefsky (e di Mann) è un cinema che fa della povertà degli ambienti e della ricchezza umana dei propri personaggi la sua cifra stilistica, anche grazie ad un cast che sa come estrarre il meglio dal milieu italoamericano della metropoli, influenzando anche cineasti che sapranno affermarsi in seguito, come Cassavetes prima e Scorsese poi. Davvero notevole la prova interpretativa di Ernest Borgnine (al secolo Ermes Effron Borgnino), goffo e problematico quanto serve, e giustamente ricordato, nonché premiato, per questa sua prestazione.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta