Regia di John Madden vedi scheda film
La caccia ai criminali nazisti filtrata attraverso la sensibilità femminile. Le inibizioni, le sofferenze, le ossessioni di una donna partecipano ad un gioco sporco, faticoso e violento, che, per una volta, non si risolve cinematograficamente nella solita levigata spy story, nel meccanismo perfettamente oliato diretto da un’intelligence multinazionale. Tre giovani ebrei ingaggiati dal Mossad, aventi come base un appartamento abbandonato e cadente, sono i solitari ed inesperti artefici della cattura del dottor Dieter Vogel: un medico che, nel 1965, conduce uno studio di ginecologia a Berlino Est, ma, durante la guerra, è stato il chirurgo di Birkenau, il mostro che ha effettuato terribili esperimenti scientifici sulle persone internate nel campo di sterminio. Per incastrarlo, catturarlo, farlo uscire dal paese, è necessario agire con pochi mezzi, agendo a viso aperto, e mettendo letteralmente le mani sulla preda, come in una primitiva impresa venatoria. Il contatto diretto con l’uomo, aggredito con l’inganno, trasportato, segregato, nutrito, in condizioni di disagio e clandestinità, diventa un drammatico faccia a faccia col nemico, un crudele confronto con i suoi pensieri di individuo razionale ed i suoi istinti di animale braccato. Le circostanze vogliono che Rachel, l’unico membro femminile del commando, diventi l’interlocutrice preferita del prigioniero, ed anche la sua vittima designata. Tocca a lei assumersi il maggiore peso morale in una vicenda che è intrisa del sudore e del sangue di un’umanità ferita, e che prosegue l’orrore passato, senza poterlo rimediare, né sistemare storicamente. Nel corso del racconto, il problema della giustificazione si incrocia con la questione della giustizia, in un groviglio di verità ufficiale e verità del cuore che tiene perennemente in ostaggio la coscienza. L’impossibilità di cancellare, o anche solo superare, la tragedia del genocidio, non si esaurisce, in questo caso, nel ricordo dell’atrocità che resta per sempre inchiodato alla mente di chi l’ha subita. Molto più difficile che archiviare una certezza è, infatti, archiviare un dubbio, uno scrupolo, una debolezza, una menzogna: un buco, nel nostro personale bilancio esistenziale, un segreto di cui siamo gli unici depositari, e sulla base del quale dobbiamo costruire un patrimonio da lasciare in eredità. Il debito indicato nel titolo inglese non è, semplicemente, una vendetta rimasta in sospeso, una domanda che attende una risposta, bensì un conto da pareggiare con il mondo a cui si è consegnata una certa versione dei fatti ed una determinata immagine di sé. Il dilemma riguarda il modo in cui portare a termine una missione riparatrice, che si può onorare, con opposti effetti, con un’azione risolutiva o con una dichiarazione dirompente, mettendo il sigillo della morte ad un discorso rimasto sepolto nel silenzio, oppure riaprendo dolorosamente una partita che tutti credevano chiusa.
Il tema della responsabilità storica, e delle criticità ad esso legate, è totalmente assente nell’omonimo film israeliano del 2007, di cui questo è il remake: un film in cui la narrazione è incentrata sui punti di vista personali dei protagonisti, senza mai estendersi ad una dimensione etica di carattere universale. L’opera precedente appare anche meno cruda, l’azione ed il suo contesto risultano più asciutti e meglio organizzati, come si addice ad un’operazione eseguita da un gruppo di agenti del Mossad ben addestrati e fortemente determinati. Tutto ruota intorno al netto confronto tra il bene e il male, il torto e la ragione, e le scelte appaiono dettate dalla necessità, motivate dall’orgoglio e sostenute dal coraggio: uno schema dialettico decisamente troppo rigido, che sembra sottendere un categorico concetto di eroismo, innaturalmente freddo e mascherato da senso del dovere. Il film di John Madden sostituisce, alle tesi da mettere in pratica ed ai principi da difendere, lo strazio interiore che accompagna l’impotenza dell’individuo di fronte agli eventi avversi ed incontrollabili: un’impotenza reale e concreta, che non è frutto dell’incapacità del singolo, ma è, ovviamente, il suo naturale limite di essere umano.
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