Regia di David Lynch vedi scheda film
Nel cinema di Lynch il sogno non è un viaggio dell'anima che ci eleva ad una dimensione trascendente, bensì, più banalmente, un tubero cresciuto sull'humus delle nostre paure e imperfezioni. Nei suoi cortometraggi le animazioni sono disegni in evoluzione, le cui forme si allungano e dilatano, fino a saltare od esplodere, come per tracciare il sotterraneo percorso di germinazione delle idee. In questo film la creazione è il parto dell'incomprensione e del trauma: il genio è il frutto della terra innaffiata dalle lacrime e dal sangue. Qui, come in tutte le prime opere lynchiane, le secrezioni organiche sono l'ectoplasma in cui si materializza il contenuto della mente: la nonna, impastata di polpa di patata, nasce dalla frustrazione affettiva del piccolo Mike, ma non come frutto della sua immaginazione infantile, bensì come concreta appendice della sua corporeità: non è una fantasia notturna che si libra sopra il letto, bensì un germoglio carnoso le cui radici affondano dentro il letto, aggrappandosi al lenzuolo macchiato dall'enuresi. Non è un caso se "The grandmother" è un film quasi completamente privo di sonoro: gran parte della cinematografia lynchiana si può ricondurre, infatti, all'idea di un grido muto, un urlo di angoscia che, soffocato dalla realtà, trova, come unica via di sfogo, quella di produrre, nel mondo, deformazioni e assurdità.
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