Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film
La prima inquadratura del film è un dettaglio sulla borsetta tenuta sotto braccio da una bella mora. Cosa contiene? Una refurtiva, quasi 10.000 dollari, sottratti dalla cassaforte del proprio datore di lavoro. Marnie appare recidiva: lo ha già fatto in passato e pare pronta a rifarlo anche nello studio Rutland, dove è stranamente stata ingaggiata dal titolare nonostante la soffiata sulle manie cleptomani della bella ragazza, intanto divenuta bionda.
Lo spettatore ha un primo sussulto quando, colta quasi in flagrante, Marnie viene non solo perdonata, ma addirittura riempita di attenzioni, fino al matrimonio e alla luna di miele milionaria dal bello e perdutamente innamorato Mark Rutland. Ma cosa si cela dietro le nevrosi e la cleptomania della misteriosa ragazza dal passato oscuro?
Dramma psicologico con risvolti romantici. È tutta qui la descrizione di “Marnie”, film del 1964 per la regia di Alfred Hitchcock. Un Hitchcock minore, verrebbe da dire, non foss’altro perché, a parte un cavallo azzoppato, non c’è un morto misteriosamente ammazzato, nessun intrigo internazionale, nessun delitto perfetto. Ma quel che colpisce maggiormente è che escludendo il furto alla Rutland & Co., effettuato con scaltrezza, e fortuna, da Marnie, non si assiste ad una scena di suspense degna della fama del regista. Da apprezzare certamente le venature psicologiche, l’appassionante e smisurata storia d’amore, il finale chiarificatore, che pure ha il suo impatto emotivo. Ma il maestro ci ha abituato a situazioni e risvolti che hanno creato prima e consolidato poi un aggettivo, “hitchcockiano” che nella storia del cinema è sinonimo di magnificenza. Se il film fosse stato firmato da qualcun altro allora la prova di Tippi Hedren, lo charme di Sean Connery ed il finale duro, precursore di molto cinema giallo dei decenni successivi, avrebbero forse segnato i confini di una pellicola di buona fattura, senza sbavatura e con alcuni momenti degni di nota. Ma questo è il regista che ha inventato il thriller; colui che ha insegnato cinema coi suoi movimenti di macchina, imprevedibili e geniali, e con una cura dell’inquadratura mai banale, né scontata; colui che ha dato una sostanza al termine “suspense”. E allora non si può non fare raffronti, notando che a parte l’indimenticabile tema musicale di Bernard Herrmann, questo “Marnie” pur raccontando una pagina importante del cinema degli anni ’60, seppur solo sul piano tecnico ed estetico, è comunque un’occasione persa in cui il grande maestro del thriller appare stanco, se non addirittura svogliato.
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