Regia di Jon Favreau vedi scheda film
C’è euforia nelle esibizioni aeree del magnate Stark, rivestito dell’armatura di un supereroe. Accompagnato dal rock aggressivo degli Acdc, volteggia nell’aria per atterrare, nel visibilio della folla, sul palco del parco a tema di famiglia, un luna park tecnologico spacciato per un’esposizione mondiale privata. Ma l’ambizione eccitante di riuscire a tenere la baldanza del primo capitolo all’interno di un sequel passa presto, mentre il film si muove tutto tra il pubblico e il privato, tra la serietà dei temi e la sfrontata leggerezza dell’esecuzione che li cancella. La guerra è privata e la difesa Nazionale? La salute si può minare con l’esigenza dell’efficienza? Quanto i propri difetti possono interferire con le intenzioni e la genuinità degli intenti?
I demoni interiori, presenti nel prototipo a fumetti (alcolismo, depressione, egocentrismo, mania di grandezza) sono addensati nella versione cinematografica, che così pare più una tavolozza di appunti che un film compiuto. La velocità impressa alle vicende non permette un adeguato sviluppo, tutto viene accennato e subito accantonato per lasciar prevalere l’azione e la sua roboante plasticità.
Come ogni seguito americano, la posta in gioco si moltiplica, l’eroe si duplica (War Machine), gli avversari si fotocopiano (il rivale infantile invidioso, ora a capo di un gruppo concorrente dopo il manager inaffidabile - Jeff Bridges - del primo Iron Man), gli antagonisti si decuplicano (i robot al servizio di Whiplash), lo S.H.I.E.L.D. incombe (Fury e la Vedova Nera) e i Vendicatori aspettano il varo (come dimostrano i collegamenti in atto tra Hulk e Iron Man e le promesse pellicole di Thor e di Capitan America).
La perfezione tecnica non basta a far digerire una recitazione compiaciuta (Downey) e una regia sopra le righe, a costringere le protagoniste femminili a semplici figure da comprimarie (la segretaria Pepper Potts, la Vedova Nera di Scarlet Johansson, peraltro protagonista delle scene più riuscite del film). Tra sparatorie e duelli, voli e distruzioni generalizzate, spicca solo un certo gusto di Favreau per l’arguzia nella scelta del cast. Howard Stark (padre di Tony) arriva direttamente dagli Anni Sessanta (con promesse tecnologiche e premesse traumatiche) con il volto e il corpo di uno dei protagonisti di Mad Men; la vamp bionda Johansson diventa la fulgida rossa e russa Natasha Romanoff, mentre Sam Rockwell (eterno comprimario, spesso sopra le righe) interpreta il rivale ricopiando la recitazione del protagonista, tra capricci infantili e velleità superomistiche, fornendo una sintesi antinomica e segretamente autocritica del personaggio principale, ulteriormente riflessa nella presenza dell’anti-Iron Man, War Machine. Così anche il film diventa solo un ricalco del precursore, un riflesso deformato dal gioco al rimpiattino col successo e col divertimento che, nella costante volontà di superamento del modello, smarrisce per strada l’autonomia e la coerenza anche del solo divertimento.
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