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In Absentia

Regia di Stephen Quay, Timothy Quay vedi scheda film

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La recensione su In Absentia

di OGM
10 stelle

In questo film dei fratelli Quay la visione si fa spettro, per dare vita ad una sorta di astrattismo cinematografico: lo sguardo della macchina da presa si ferma ai contorni del visibile, ritraendo condizioni di luce, stati d’animo, movimento puro, ed eludendo caparbiamente sia la figura compiuta,  sia il racconto dotato di senso e di sviluppo. L’essenza dell’opera è la trasformazione nuda e cruda, che non arriva mai a maturare in azione, bensì rimane ad aspettare sulla soglia, come una volontà di espressione che non riesce a farsi parola, o un impulso di evasione che naufraga contro le sbarre di una prigione. La protagonista di questa storia, una certa E.H., che scriveva al marito dal manicomio, è, con la sua follia,  proprio l’incarnazione di un potenziale indefinito (e probabilmente ineffabile) condannato a non attualizzarsi mai. La donna impugna la matita senza riuscire a comporre le lettere sul foglio, e le pagine, piene di segni indecifrabili, che lei crede di imbucare nella cassetta della posta, finiscono, in realtà, sul pavimento, sotto un mobile,  dove nessuno le raccoglierà. Il mittente è afasico, il destinatario irraggiungibile, la comunicazione è pertanto inesistente, ma, ciononostante, la sua presenza come idea si fa sentire: è questa a creare quello spostamento d’aria che riempie la scena di una vita immateriale, fatta di vento, bagliori, ombre, e che, col suo fugace tocco, trasferisce, anche sugli oggetti più insignificanti, il guizzo acerbo di un’anima allo stadio embrionale. Così anche le matite - e perfino i frammenti di legno e di grafite che producono quando si spezzano o sono temperate – si mettono a vibrare di un’ansia istintiva e meccanica, del riflesso incosciente di una primitiva paura, come quella che scuote gli animali prima di un terremoto.  L’atmosfera è resa opaca dagli effluvi roventi di un magma sotterraneo, di un’energia che preme sotto la grigia scorza della banalità, ma sul suo percorso incontra solo una roccia fredda e impenetrabile. L’incomprensibilità della pazzia la circonda di un alone smorto, che spegne, in chi la guarda dall’esterno, ogni ardore della fantasia: la donna si mostra solo di spalle, come un soggetto impossibile da ritrarre, che nega all’osservatore ogni spunto di fascino, ed ogni fonte di ispirazione. In questo modo, il minimalismo visivo diventa una forma di crudeltà artistica, che soffoca, insieme al gusto di guardare, anche il naturale desiderio di sognare. I fratelli Quay sostituiscono, all’invisibilità del soggetto, che è uno stratagemma cinematografico fin troppo collaudato, la miopia dello spettatore: noi, al di qua dello schermo, ci ritroviamo così impegnati in un costante sforzo di mettere a fuoco, inesorabilmente frustrato da una realtà che si presenta, ad ogni istante, come una fotografia mossa, mal centrata o sovraesposta.

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