Regia di Arne Mattsson vedi scheda film
Un vero e proprio pamphlet contro l’intolleranza e l’oscurantismo religioso. La tematica (sorretta da un solidissimo percorso narrativo e un sapiente senso della messa in scena) è quella dell’attrazione sensuale adolescenziale che trova il suo acme nell’appagamento amoroso dell’atto ritenuto ancora in quei tempi proibito, inopportuno e scandaloso.
Strana la sorte di alcuni titoli che hanno avuto un più che positivo riscontro (di critica e al botteghino) al momento (ormai lontano) della loro programmazione in sala, del loro essere transitati persino con un certo clamore attraverso alcune delle più accreditate kermesse cinematografiche internazionali dell’epoca, e poi piano piano dissipatisi nel nulla, dispersi nel pernicioso limbo di una progressiva “dimenticanza” che ne fa perdere a volte persino le tracce e i riferimenti, fino a rendere difficili (o addirittura impossibili) anche i necessari recuperi di conoscenza non solo valutativa sempre necessari ed opportuni .
Rientra certamente in questa purtroppo folta categoria di “desparecidos” anche Hon dansade en sommar (in italiano Ha ballato una sola estate) diretto nel 1951 da Arne Mattson e presentato con successo al Festival di Cannes di quell’anno, dove si aggiudicò persino un premio per la colonna sonora di Sven Skol.
La risonanza internazionale della pellicola fu tale, che possiamo attribuire senza ombra di dubbio proprio a questo titolo il merito di aver riacceso un pò dovunque l’attenzione e l’interesse per la cinematografia svedese, aprendo così la strada alle straordinarie performances di un regista di culto come Ingmar Bergman che, se in quegli anni aveva già al suo attivo un importante e valido curriculum creativo, stentava ancora – proprio per la disattenzione generalizzata verso le pellicole del nord Europa - a farsi conoscere e apprezzare al di fuori dei confini della sua patria (molti di quei titoli già realizzati saranno infatti “tardivamente” recuperati – e in ordine sparso tutt’altro che cronologico – soltanto dopo l’affermazione altrettanto clamorosa del suo nome che diventò subito una prepotente garanzia di qualità superiore, grazie allo straordinario exploit di Sorrisi di una notte d’estate, a sua volta vincitore della Palma d’oro sempre in terra di Francia - ancora Cannes, naturalmente - nel 1956).
Se non altro quindi, per la sua caratteristica inconsueta di “apripista”, Ha ballato una sola estate dovrebbe mantenere immutato un valore documentale storicamente rilevante sufficiente a garantirgli un interesse meno appannato, e un’attenzione e più solidamente concreta rispetto a ciò che resta delle labili impronte a noi pervenute, anche se visto adesso, il film potrebbe risultare certamente meno innovativo e insolito di quanto non apparve invece in quegli anni (qui in Italia fu ritenuto persino scandaloso a causa di una poetica e ormai “castissima” - ma sensualmente coinvolgente - scena erotica, decisamente ardita per l’epoca, che mostrava con pudica riservatezza densa di elegiache assonanze pastorali, i due giovani protagonisti della storia, fare il bagno – e l’amore – completamente nudi in un lago, elemento questo non marginale per il buon risultato commerciale conseguito nell’immediato).
La pellicola ebbe anche il non secondario privilegio di rivelare il talento acerbo di una splendente, sensualissima adolescente, rispondente al nome di Ulla Jacobsson (presente anche fra le principali interpreti femminili del film di Bergman sopra menzionato) che rappresenta ancora oggi il suo principale elemento di eccellenza .
L’opera di Mattson, organizzata intorno a una sceneggiatura firmata da W. Semitjov a partire dal romanzo Sommardansen di Per Olaf Ekström, è un vero e proprio pamphlet contro l’intolleranza e l’oscurantismo anche e soprattutto religioso, decisamente ardita per le inusuali concessioni leggermente voyeristiche che offre in relazione a una tematica particolare come quella dell’attrazione sensuale adolescenziale che trova il suo acme nell’appagamento amoroso dell’atto ritenuto ancora proibito, “inopportuno” e “scandaloso”.
La storia narrata, è quella di uno studente che risponde al nome di Göran, in vacanza estiva nella fattoria di uno zio, che conosce ed è sedotto dalla travolgente, emozionale bellezza di Kerstin, splendida contadina locale appena diciassettenne (un personaggio, il suo, reso indimenticabile, come già detto, dalla straordinaria, aderente, magnifica interpretazione della Jacobsson capace di trasmettere tutta la conturbante carica erotica del suo essere “donna appena sbocciata”, che aggredisce con prepotenza lo spettatore più che attraverso le sinuose forme carnali del corpo, utilizzando semplicemente la mobilità del volto, la luminosità giovanile degli occhi con i quali riesce ad esprime compiutamente, unicamente attraverso il tremore di uno sguardo, la passione, il desiderio e l’attrazione fatale del sesso) suscitando lo sdegno scandalizzato e “colpevolista” del pruriginoso puritanesimo locale quando i due, sfidando la morale corrente e nonostante la dichiarata condanna della società circostante, diventeranno palesemente “amanti” privilegiando la forza dell’attrazione.
Il finale sarà inevitabilmente tragico: un incendio doloso causato “volutamente” da una ragazza un pò folle, metterà infatti prematuramente fine al rapporto amoroso e alla vita della ragazza che perirà “dentro al fuoco”, un elemento così catarticamente indicativo, che sarà interpretato come un chiaro segno di “punizione divina” proprio dai bigotti benpensanti della zona che vedranno così mondata dal peccato la loro comunità perchè “la strega è stata finalmente bruciata sul rogo”.
La struttura è circolare: un unico, prolungato flashback che è poi il racconto della conoscenza, del richiamo dei sensi, della “passione” che sboccia impetuosa e della morte improvvisa e crudele, racchiuso fra due scene fra loro conseguenti, quella iniziale che si apre proprio con il funerale della ragazza, e quella conclusiva che si riallaccia direttamente alla cerimonia funebre di apertura, illuminata dal veemente discorso disperatamente irato dello zio che si scaglia con la sua invettiva feroce, contro l’intolleranza oscurantista del villaggio (e della società che questo rappresenta) prioritaria causa più o meno diretta del terribile dramma che si è consumato per quell’incapacità persistente di comprendere e di accettare “le ragioni degli altri” e del cuore. La vis polemica dell’invettiva conclusiva contro il bigottismo intollerante che traspare da quelle parole, pur se in misura e per ragioni diverse, è sicuramente di sconvolgente attualità ancora oggi e il regista è bravissimo a veicolarcela utilizzando un solidissimo e appassionato percorso narrativo e un sapiente senso della messa in scena, nel lirismo esasperato delle immagini e la poetica traslazione dei sentimenti visualizzati attraverso la bellezza incontaminata e un pò bucolica di un paesaggio affascinante e rigoglioso ancor più pulsante del magnifico corpo della ragazza. Eccede semmai un po’ troppo nell’abbandonarsi a quel romanticismo esasperato così in voga nel cinema prebellico (e che forse già allora risultava un tantino anacronistico e in contrasto, probabilmente proprio la causa principale alla quale deve essere attribuito il precoce invecchiamento della pellicola) senza però rinunciare al più pertinente ed appropriato (rispetto alla storia e ai fatti) naturalismo pittorico introdotto con prepotenza dai giovani registi del dopoguerra. Un connubio per molti veri ardito ed azzardato... ma decisamente affascinante, come osservò a suo tempo Cowie, e che sarebbe interessante “riconsiderare” alla luce dell’oggi: fedele testimone della evoluzione del gusto e della morale, e pur ancorato per molti versi a schemi decisamente datati, il film meriterebbe davvero un recupero aggiornato di “revisionismo critico” se non altro per l’indimenticabile prestazione della protagonista, oltre che per la coinvolgente atmosfera creata dallo score musicale ben amalgamato con il chiaroscurato bianco e nero preziosamente variegato nelle sue infinite sfumature di grigi un po’ opalescenti e sfumati.
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