Regia di Scott Cooper vedi scheda film
Ebbene, oggi voglio parlarvi di un film del 2009, Crazy Heart, opera prima di Scott Cooper, regista alquanto inclassificabile, almeno al momento, che ha appena diretto Hostiles con Christian Bale, attualmente sui nostri schermi, e prima Out of the Furnace sempre con Bale, e Black Mass con Johnny Depp. Dicevo... inclassificabile. Sì, perché per come si sta definendo la sua carriera, il suo Cinema non è ben identificabile, almeno in termini autoriali. È insomma un autore, possiamo inquadrarlo in questa nomea, o è, a meno che in futuro non ci smentisca, “solo” un diligente metteur en scène particolarmente bravo a dirigere gli attori che, infatti, puntualmente per le loro interpretazioni nei suoi film ricevono grandi plausi e le cui performance vengono valorizzate appieno da una regia, appunto, che li mette al centro nella storia e li fa rifulgere, glorificandoli?
E quest’opus numero uno dimostra esattamente questo assunto. Un film alquanto convenzionale con una vicenda già vista parecchie volte, il cui valore sta essenzialmente nella bellissima, tenera e profonda prova d’attore di un Jeff Bridges al massimo del suo splendore decadente, un cantante country sulla via crepuscolare del tramonto, che ha cinquantasette anni, beve come una spugna, è incallito tabagista ed è costretto, per sbarcare il lunario, a esibirsi in balere scalcagnate e sordidi localacci in New Mexico.
Jeff Bridges appare in tutto il suo corpaccione sudaticcio e ubriaco sin dalla primissima scena, e subito torna alla memoria il suo mitico grande Lebowski, perché lo vediamo addentrarsi sgangheratamente in un bowling. Non ordina però stavolta White Russian, ma va matto per la sua irrinunciabile McClure’s. Una bevanda fictional, sì, immaginaria, inventata apposta per il personaggio del suo film perché pare che un whiskey di questo nome non sia mai esistito. E dopo poco capiamo che, col Drugo, questo personaggio di Jeff Bridges, che si chiama Bad Blake, a parte il look, non ha molto in comune. Il Drugo era un uomo sostanzialmente felice seppur nullafacente, un eterno, infantile sognatore un po’ debosciato, Bad Blake invece è un uomo che profuma di genuina amarezza, quella della vita consumata grezzamente nelle bettole e nell’America sconfinata delle ballate romantiche e un po’ civettuole.
Bad Blake è stanco, si trascina di locale in locale come un fantoccio ambulante, e si regge in piedi solo grazie al suo accattivante carisma da cantante melodico. Sta per essere soppiantato da una giovane stella, Tommy Sweet (Colin Farrell), ed è un uomo che pare non abbia più molto da chiedere alla vita. Sin a quando conosce una giornalista avvenente che lo intervista. Immediatamente fra i due scatta un’elettrizzante chimica ed è amore a prima vista. Grazie a lei e al suo bambino, Bad Blake si redimerà, ma forse sarà troppo tardi, perché non si può tornare indietro e di quest’amore tanto sincero quanto fuggevolissimo rimarrà solo un candido, bel ricordo.
Distribuisce la Fox Searchlight, già artefice del successo, soltanto l’anno precedente, dell’analogo The Wrestler, il film Leone d’Oro a Venezia di Aronofksy che fruttò a Mickey Rourke uno strameritato Golden Globe e lo portò a sfiorare l’Oscar. A mio avviso, un po’ ingiustamente soffiatogli dallo Sean Penn di Milk. Sì, sono parecchie le somiglianze e le specularità con The Wrestler e chi è specializzato nei raffronti e nei parallelismi potrà sbizzarrirsi a giocar di corrispondenze, potrei dire, metacinematografiche. Cambia l’ambientazione, cambia lo scenario e la professione del protagonista ma anche qui abbiamo un ottimo esempio di character study, vivificato nella centralità di uomo rotto dentro che, attraverso l’amore di una donna, continuerà a combattere, soprattutto nel ring dell’esistenza. Questo film di Cooper, oltre all’interpretazione portentosa, rilevante di Bridges, misurata e mai manierata, ha un pregio comunque evidente. In questa storia tenerissima, non si scade mai nel patetismo anche se il personaggio avrebbe potuto indurre alla retorica e a un senso mieloso di caricato sentimentalismo. Bad Blake è un puro, un irrimediabile illuso che crede nell’amore, un uomo che ha un figlio, adesso di ventotto anni, che non rivede da quando il piccolo ne aveva quattro. Ed è dunque delicatissimo, commovente il rapporto di padre adottivo che instaura col bambino della donna. Disperato e catartico. Ed è qui che il film diventa toccante e autentico.
Dove non funziona è nel resto.
Questo film è quasi identicamente ricalcato su Tender Mercies, il film di Bruce Beresford che diede a Robert Duvall il suo unico Oscar. Né più né meno di una piacevole fotocopia. E peraltro il grande Duvall ecco che verso i trequarti della pellicola appare autocitandosi in quella frase che bello vederti... in cui par che si complimenti con Bridges, che lo incarna trasmigrato in Jeff, dunque in Duvall stesso. In un elegante gioco citazionista che si riverbera rimembrante d’attoriali membra sovrapposte, si auto-omaggia in simmetriche anime affettuosamente compenetranti le loro rispettive grandezze.
E non funziona nel personaggio della donna, una Maggie Gyllenhaal che non “stecca” una sola espressione del viso e che ritrae con onesta intensità il suo personaggio, ma il cui personaggio stesso è abbastanza scontato, superficialmente abbozzato e stereotipato per creare davvero emozionalità empatiche nello spettatore.
Insomma un film che non vi deluderà se siete fan di quello che il New York Times definì il più sottovalutato grande attore della sua generazione, il nostro amatissimo Jeff Bridges.
Se invece da un film pretendete giustamente qualcosa di più, resterete delusi perché, anche sull’argomento, esistono e probabilmente esisteranno film decisamente migliori.
Come si suol dire, in questi casi, ottima fotografia, bei paesaggi, una stupenda colonna sonora, con la straordinaria Fallin’ and Flyin’, un Jeff Bridges appunto da Oscar, una confezione impeccabile ma niente di originale e nuovo sotto il Sole.
di Stefano Falotico
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