Regia di Noah Baumbach vedi scheda film
Una pellicola girata con un tocco lieve quasi da commedia e sorretta da una eccellente regia, attenta al dettaglio volta a smorzare sia i toni comici che quelli drammatici e a trasformare il risultato in un qualcosa che ha un sapore vagamente esistenziale molto toccante ben aiutata in questo dalla corposa consistenza dei dialoghi.
Roger Greenberg non sa guidare, non sa nuotare, e soprattutto fatica ad afferrare il timone della sua vita... insomma è un altro dei tanti personaggi che popolano l’affollata galleria di individui smarriti nel tempo e nello spazio (oltre che dentro le proprie personali insoddisfazioni) inventati da Noah Baumbach prima in qualità di sceneggiatore (per Wes Anderson), e poi come regista in proprio, ancora una volta alle prese con una crisi di mezza età messa in scena con un’ironia un po’ compassionevole e una buona dose di tristezza mischiata a tenerezza, ma soprattutto con un tono fresco, genuino e felicemente divagante che contribuisce a farne una pellicola per molti versi davvero “speciale”.
A Roger Greenberg (un protagonista che è talmente difficile da sopportare per le sue palesi incongruenze, che alla fine diventa impossibile non affezionarcisi e volergli bene), offre la sua maschera irregolare un insolito (ma straordinario) Ben Stiller che con un inusuale, costante controllo dei movimenti oltre che della mimica facciale, entrambi decisamente lontani dal consueto cliché interpretativo dell’attore, domina letteralmente la scena, costruendo con totale aderenza, sincerità e passione, un personaggio davvero a tutto tondo (già magnificamente disegnato in sceneggiatura), in perfetta sintonia con le linee di una regia a sua volta “libera” ed efficace.
In perenne stato di frustrazione e aggressività, di vagabondaggio incerto dell’anima e di indecisione esistenziale oltre che di costante sconnessione (caratteriale, territoriale e generazionale), Greenberg è un uomo ormai arrivato alla soglia della maturità che non è stato capace di crescere e di costruire relazioni, un vero e proprio coacervo di contraddizioni insomma che ne fanno una figura tutt’altro che semplice, piena di rancori e indecisioni, che trovano spesso sfogo in scenate sbagliate e fuori luogo, in perversi meccanismi di difesa e piccoli momenti di autolesionismo fra risentimenti repressi e atti mancati con alternanza di “pause” apatiche contrassegnate da prolungati silenzi quasi afasici e successive “riprese” di prorompente logorroicità (che sono poi le due evidenti facce di una stessa medaglia, che evidenziano la sua profonda irrequietezza esistenziale).
Il film ce lo fotografa nel momento in cui da New York deve tornare per qualche settimana a Los Angeles (sua città natale) per occuparsi della casa e del cane del fratello, partito con la famiglia per mettere su un albergo in Vietnam. E’ appena uscito da una clinica psichiatrica a seguito di un gravissimo esaurimento nervoso che con un deciso colpo di spugna, sembra sia riuscito persino a cancellargli dalla mente tutti i ricordi e le pulsioni degli ultimi quindici anni della sua vita. Il suo è dunque un viaggio e uno spostamento reso necessario da improrogabili motivazioni familiari, che dopo il prolungato blackout dei ricordi, lo costringe inesorabilmente a ritornare alle origini, proprio nel posto insomma dove “tutto aveva avuto inizio” e dal quale era fuggito per tentare di rifarsi una diversa vita altrove: una Los Angeles completamente spogliata dal suo proverbiale glamour, caliginosa e offuscata dallo smog, davvero anni luce lontana dall’essere ancora la meta ideale che regala(va) la “promessa di un sogno”, e che in un’epoca ormai lontana era stata proprio lo specchio della sua fallita scalata al successo con un promettente gruppo rock.
Letto in quest’ottica, il film di Baumbach potrebbe sembrare allora una pellicola finalizzata soprattutto ad analizzare le differenze sostanziali esistenti tra l’Est e l’Ovest dell’America messe in evidenza proprio narrando lo sradicamento di un newyorchese d’adozione ormai incapace di riadeguarsi a una realtà anche geografica così distante negli “usi “ e nei consumi dalla sua attuale quotidianità di vita, come risulta apparire appunto adesso ai suoi occhi quella una volta mitizzata Città degli Angeli delle speranze giovanili. Si tratta però soltanto di marginali pennellate di colore necessarie per contestualizzare la storia e definire meglio caratteri e situazioni, perché ben altre ed evidenti risultano da subito le ambizioni del regista, interessato a raccontare invece proprio l’inadeguatezza di un’esistenza un poco alla deriva e a mettere a fuoco una crisi individuale ben più ampia e complessa che coinvolge direttamente l’incapacità di un uomo come Greenberg di relazionarsi con il presente, dopo che quel trauma nervoso ha di fatto rimesso in discussione tutte le scelte che lo avevano portato ad abbandonare una città e una ipotetica carriera artistica ben tre lustri prima.
Se la pellicola sembra girata in apparenza con un tocco lieve quasi da commedia, è poi la scrittura piana e misurata, molto accurata dell’autore, e ancor più la sua eccellente regia, attenta al dettaglio e alla strutturazione dello spazio, volta a smorzare sia i toni comici che quelli drammatici, a fare la differenza e a trasformare il risultato in un qualcosa che ha un sapore vagamente esistenziale molto toccante, e a farla diventare un’opera insomma che ha molto (se non tutto) del cinema indipendente americano e che evidenzia, ben aiutata dalla corposa consistenza dei dialoghi, il percorrere lento di una vita senza eccessi, senza svolte, senza rivelazioni, concentrata soprattutto sulla relatività di un tempo apparentemente bloccato e su dinamiche interpersonali e di interazione con gli oggetti e le persone, irrimediabilmente circoscritte e quasi del tutto inibite.
Storia di una “perdizione” odierna quasi catatonica dunque, ben incarnata da un antieroe che non fa nulla per muovere le cose (nemmeno per rimanerci simpatico però), e di uno smarrimento dei tempi (e nei tempi) in cui è arduo non riconoscersi almeno in parte, che riguarda appunto questo quarantenne problematico e frustrato, ma anche una ragazza un po’ persa, un cane malato e un amico reincontrato ma ugualmente in crisi: tutte figure altrettanto ben delineate che animano uno spazio annoiato, triste e vuoto, dove ciascuno prova a ritrovare sé stesso (o quello che ormai resta).
Un momento qualunque di una vita qualunque, si potrebbe dire, se non fosse per qualche stravaganza di un protagonista che una volta tanto (e come già detto, ne va dato pieno merito al suo interprete) non ci fa morire dalle risate, ma semmai solo sorridere a tratti, in quel suo non aspettarsi nulla e fare ancora meno per cambiare, con il rimpianto ben nascosto di una carriera musicale consapevolmente buttata via alle ortiche per fare invece il falegname, che lo porta alle volte anche a ferire gli altri, magari senza rendersene troppo conto. Un modo davvero maldestro di vivere insomma che si stratifica in una palese immobilità dello spirito che caratterizza spesso una situazione molto particolare quasi di “bilancio” della propria esistenza come quella in cui si raggiungono gli “anni di mezzo” e si è costretti inesorabilmente a “voltarsi indietro”). Il progressivo sviluppo della vicenda evita però di lasciare ferma la storia al semplice momento di una evidente crisi del presente che porterebbe solo ad adagiarsi in continui riferimenti a un passato da cui non ci si è mai davvero distaccati, quasi che si trattasse di una ideale “età dell’oro”, oltre la quale rimane soltanto il nulla dei valori e delle prospettive.
E a guardar bene, proprio per tutte queste circostanze, alla fine Roger Greenberg (spesso ostacolato nella sua interazione verso l’esterno e gli altri da filtri scenografici come stipiti, soglie d’ingresso, vetri, finestre, balconi), dopo moti sorrisi e qualche risatella non tanto fragorosa (e in verità persino un poco amara), ci fa venire davvero il magone, perchè Baumbach semina nella sceneggiatura continui riferimenti a un passato sofferto che funge ancora da prigione nel quale tutti possiamo forse per molti versi un po’ identificarci, e al contempo ne documenta anche l’inerziale sviluppo relazionando metronomicamente il personaggio con gli oggetti con cui entra nevroticamente in contatto (…) come il burro di cacao quale perpetua coperta di Linus, o una lettera di protesta fra le tante inviate che infine trova la sua giusta collocazione sulle pagine del”New York Time”, oppure il telefono, il suo veicolo principale di possibile collegamento con l’esterno, diaframma di un’autodifesa (Giampiero Frasca) anche un po’ conservativa e di “protezione” che finisce per isolarlo ancor di più impedendogli di congiungersi (anche metaforicamente) con gli altri per i troppo dubbi e le pure che lo divorano.
Nelle sue pigre giornate infatti, fra una lettera di lamentela e l’altra (a Starbucks per la brutta musica che diffonde nei suoi locali o alla compagnia aerea per i sedili che non si reclinano), fra le sue nostalgiche visioni cinematografiche tutte immerse nel passato (Gung Ho di Ron Howard e Mannequin di Michael Gottlieb), arriva alla fine anche un raggio di luce che potrebbe (dovrebbe) smuoverlo dal sua narcisismo esasperato e solitario. Mi riferisco a Florence, la giovane assistente del fratello (un’altra che non sa nemmeno lei che cosa è necessario prendere dalla vita, visto che ha chiaro solo ciò che non vuole e poco altro), alla quale nel suo percorso di ricompattazione e di recupero dagli viluppi implosi, Greenberg riuscirà persino a dichiararsi (ma solo per mezzo della segreteria telefonica), un personaggio altrettanto disarmante di aspirante cantante dai sogni vaghi e imprecisi a cui dà voce ed anima una intensa, duttile, naturalissima, strabiliante Greta Gerwing (un nome da tenere bene a mente per il futuro).
Ovviamente la parte del leone tocca a Ben Stiller come abbiamo visto, misurato e pronto ad adeguarsi alle esigenze di una regia che giustamente pretende e vuole molto. C’è solo una sequenza in cui l’attore si lascia andare a quella comicità un po’ cinica a cui ci ha abituati in molti dei suoi film, ed è quella in cui si ritrova a una festa di teenagers, con i Duran Duran in sottofondo e una pista di coca da sniffare (la musica è quella di The Chauffeur, dall’album Rio, che se non erro è del 1982) e la sua analisi sulla vita e sulle generazioni che cambiano e si modificano è spiazzante e quasi delirante: quei ragazzini così consapevoli di sé, così cinici e “immorali”, lo terrorizzano infatti così tanto, al punto di farlo sperare di morire prima di doversi ritrovare davanti a uno di loro magari anche per un semplice colloquio di lavoro.
Un bellissimo esempio dunque di un cinema che riesce perfettamente a cimentarsi con l’insidioso registro del “tragicomico” (difficilissimo da maneggiare) senza mai sbracare, realizzato da un regista a sua volta profondamente cinefilo come si conferma essere Baumbach anche in questa circostanza, che ha molti numi tutelari alle spalle da Woody Allen a John Cassavetes a cui ispirarsi (e non ne fa mistero) ma sempre con sorprendente e personale originalità però: un’opera buffa e malinconica allo stesso tempo segnata da una sensibilità disincantata, schietta e originale, che lancia più di un’occhiata di riguardo verso l’umana imperfezione, e mostra un’attrazione tutta intellettuale (ma mai intellettualistica, si badi bene) per i caotici smarrimenti di queste anime disperse nel fascinoso limbo delle situazioni non risolte, dove anche il tentato lieto fine della conclusione non annulla il retrogusto agrodolce e un po’ accorato delle illusioni smarrite, che permea tutta la pellicola.
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