Regia di Matthew Vaughn vedi scheda film
La particolare trasposizione fatta si colloca e si muove all’interno del genere di riferimento ma da questo si distanzia con un percorso autonomo che frantuma un po’ criticamente le ingenuità che spesso si trovano dentro molte pellicole dello stesso filone. In una specie di efficace revisione critica molto lontana dalla parodia gratuita.
Io non sono un teorico del genere e potrei di conseguenza dire qualche castroneria, ma anche con le poche conoscenze che ho del settore (e magari potrò fare infuriare qualche purista) a me sembra che un dei pregi maggiori della pellicola di Vaughn sia proprio quello di aver cercato una strada autonoma e un stile più specificatamente “cinematografico” adattando per il grande schermo l’omonima miniserie Marvel (che i cultori considerano un vero e proprio capolavoro grafico) immaginata e disegnata dall’estro creativo di Mark Millar e John Romita jr.
Il regista è infatti molto più concreto nell’inquadrare gli avvenimenti, e sposta di conseguenza il mito del supereroe di turno, in un mondo meno virtuale e più reale (assolutamente riconoscibile), quasi a voler “insinuare” che quelle fantastiche creature dotate di poteri sovrumani, riportate alla loro naturale essenza, sono ormai fra di noi e hanno perso il senso astratto della “meraviglia” (o anche che non ci sono più le “gigantesche figure” di una volta che popolavano le nostre fantasie, perché nel frattempo si sono inesorabilmente umanizzate – imborghesite - smarrendo il loro carisma “immaginifico” di stampo fantascientifico, ed è di conseguenza sempre più difficile continuare ancora a crederci o a identificarcisi).
Vaughn è infatti poco interessato ai mirabolanti colpi di scena un po’ sensazionalistici tipici della corrente, e preferisce concentrarsi invece nel “raccontare” a suo modo la storia (che poi a guardare bene sono due: quella di un nerd di nome Dave tanto innamorato di una ragazza, che per stare con lei si finge addirittura gay, poi si improvvisa supereroe e per questa temeraria esposizione finirà addirittura all’ospedale, diventando in conclusione un fenomeno davvero, ma di quelli più contemporanei e meno mirabolanti che consolidano la loro fama attraverso i social network e da questi traggono linfa e vigore; e quella di una pestifera ragazzina di appena undici anni piccola e letale, che combatte a fianco di suo padre contro il mafioso Frank D’Amico).
Sono quindi molto lontane dalla pellicola del regista le ingenuità un tantino destrorse di Superman, ma anche i sensi di colpa e le frustrazioni di natura sessuale di Spider-Man o i deliri in po’ schizofrenici di Batman, per non parlare di tutta l’altra variegata compagine di “figure strabilianti” che ormai ha invaso con prepotenza i nostri schermi saturando la nostra immaginazione, sostituite in questo caso da una normalizzazione delle cose (anche un po’ ironica e paradossale) più conforme e realistica, ma non meno “ingegnosa” in un percorso un po’ stralunato che riesce a coniugare fra loro grottesco e violenza (anche se in forma un po’ caricaturale) dentro un divertissement un po’ folle che si muove e si destreggia con efficacia fra il cartoon e il pulp, quasi un caleidoscopio post-moderno che miscela rimandi e citazioni più o meno colte, registri diversi e sorgenti di ogni tipo, in un frullato di cultura pop contemporanea, che assomiglia a un “instant movie” pieno di inventiva (Emilio Cozzi).
La particolare trasposizione fatta (su sceneggiatura dello stesso regista e di Jane Goldman) non va di conseguenza assolutamente sottovalutata né presa sottogamba, proprio per come si colloca e si muove all’interno del genere di riferimento, e da esso si distanzia , con un percorso in divenire che frantuma un po’ criticamente le ingenuità quasi d’altri tempi che spesso si trovano (anche amplificate) dentro molte pellicole dello stesso filone, per non parlare poi delle “strisce” d’origine…una specie di “sconfessione programmatica” insomma, ma molto lontana dalla parodia gratuita, del “riferimento” preso a modello: se quello di Millar/Romita era uno scagliarsi brutale contro la fatuità supposta dei miraggi eroici della contemporaneità magari con l’intento di portarne in superficie i lati più morbosi e oscuri, la messinscena di Vaughn, preferisce invece lasciar da parte i sogni per parlare semmai più esplicitamente ai “sognatori”, e fare per esempio di “Big Daddy “ (il padre della ragazzina) quasi una caricatura sopra le righe del “cavaliere oscuro” di Christopher Nolan (gli indizi sono chiaramente espressi, tanto che la realtà del regista – o meglio quella che lui qui ci rappresenta - finisce proprio per identificarsi con la nostra, quella del “qui ed ora”). Il regista non esita a ricorrere per questo anche a significativi e godibilissimi “ammiccamenti” come il cartellone pubblicitario che ci mostra una solare Claudia Schiffer, sua effettiva moglie dal 2002 e a utilizzare una particolare modalità di riprese e di una messa in scena, che chiama costantemente in causa proprio lo spettatore (la voce fuori campo da noir, per esempio, o gli sguardi spesso in camera dei protagonisti).
Anche la colonna sonora è efficacemente insolita (si veda come viene egregiamente utilizzata The Tra La La Song dei Banana Splits, allegra e irriverente canzoncina, che accompagna l’entrata in azione della ragazzina fra colpi di katana e arti amputati dei “cattivi” disseminati un po’ dappertutto, una delle sequenze più memorabili ed efficaci (ma anche criticate) dell’intera pellicola, insieme all’epilogo un po’ sopra le righe che ci spara in faccia Hit Girl già utilizzata in precedenza per concludere la sequenza dell’esecuzione live. E in questo pandemonio frastornante, una volta tanto anche Nicolas Cage è molto più in “palla” di quanto non lo sia di consueto.
Fuck you allora, tanto per concludere in bellezza, o meglio - come scrive più appropriatamente ancora Cozzi - “fottiamoci”. I tizi, “tutti gli altri”, che stanno a guardare mentre qualcuno se la vede brutta dall’altra parte dello schermo, spettatori di al-Qaeda tv, hard-core gamer da fps online, maniaci di MySpace o di Facebook, habituè di scene con mani di bimbo armate (…). Perché se non ci sono più i supereroi di una volta non è certo colpa di Vaughn o della storia che racconta, ma è semplicemente perché non ce li meritiamo, quegli eroi, rendiamocene conto guardando semplicemente cosa siamo diventati: ce lo ricorda anche Andrea Fornasiero che sottolinea come in pratica la realtà ha nel frattempo raggiunto e superato la fantasia più spregiudicata, e per darcene una conferma certa, ci consiglia di cercare su Internet un qualcosa di assolutamente spiazzante che ci farà certamente restare un po’ allibiti, come “Real Life Superhero”, il che sancisce a mio avviso, comunque la si pensi, la validità e l’importanza proprio di questa anomala “rappresentazione” cinematografica di un “fumetto di culto” come Kick – Ass.
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