Regia di Paul Schrader vedi scheda film
Conosciamo l’Olocausto come sterminio. E lo conosciamo come crimine. Ma poche storie ce lo presentano come devastazione: un danno immane che non si conclude con la morte, né si estingue con la vendetta, ma risulta in uno squallore definitivo ed indicibile, come la schiavitù che riduce un essere umano ad un cane. Quello che, per le persone non direttamente coinvolte, è il culto della memoria, dedicato ad un orrore che non dovrà mai più ripetersi, per l’ex internato Adam Stein, è in realtà, la condanna a convivere con un incubo che non è mai finito. Ciò che rimane, dopo l’esperienza dei lager nazisti, non sono brandelli di vita da ricucire insieme, bensì l’onnipresente ombra della morte dell’anima, e l’assoluta impossibilità di tornare ad essere quelli di prima. Da questa condizione si può uscire solo con una vera e propria risurrezione, con un miracolo che cancelli l’irreparabile e crei dal nulla un’esistenza nuova, piena dell’indifferente pace dell’oblio. Solo la guarigione dalla pazzia è paragonabile ad un prodigio di tal portata, che cambia di colpo il rapporto dell’individuo col mondo, realizzando un’innaturale discontinuità nella coscienza. Risuscitare come tabula rasa è l’utopia che in Adam si compie davvero: con il suo carattere straordinario, questa è, però, la meravigliosa eccezione che evidenzia la triste regola, ossia l’inamovibilità di certi terribili ricordi, che si imprimono come mostruose cicatrici nella mente e nel corpo. Questi sono i lasciti di vizi aberranti e disumani, che, nell’estremo sforzo compiuto dallo spirito di adattamento, si sono sostituiti alle normali abitudini, svuotando la vita di ogni senso e di ogni bene. La bestialità è, per Adam, Davey e tutti i suoi compagni di sventura, l’imprinting prodotto dall’inferno della segregazione, dello sfruttamento, del sadismo, in cui il marchio a fuoco di un demone patrigno ha scalzato il tenero sigillo dell’amore materno. Paul Schrader ci propone un film dalla superficie scorticata, in cui la depravazione sembra il modello a cui, innocentemente, si rifanno tutte le manifestazioni umane, nell’intimità come nelle relazioni sociali. L’umanità umiliata oltre ogni limite ha dimenticato la dolcezza e la fantasia dell’infanzia – così teneramente interpretate dal clown illusionista che Adam era un tempo – tanto da non sapere nemmeno più come si ride o si prova meraviglia. Aver visto l’inimmaginabile e - in un certo modo, aver contribuito a realizzarlo, obbedendo ai deliranti ordini dei propri aguzzini – segna il punto di non ritorno nell’avventura terrena, oltre il quale niente può più apparire vero, o nuovo, e quindi degno di essere fatto proprio ed amato come elemento di crescita e scoperta. Per questo motivo Davey, che sta su quattro zampe e abbaia, non crede di dover riapprendere a stare in piedi, a camminare, a parlare e a scrivere, perché la luce di questi valori, appartenenti alla sua specie, è stata superata dalla sua negazione: quella notte oscura in cui l’incandescenza del male ha reso visibile ogni cosa, comprese quelle irraggiungibili al pensiero, e insopportabili al cuore. In Adam Resurrected la catarsi è indotta dallo sfondamento delle ultime barriere, come quella tra uomo e animale, tra la vita e la morte, tra la lucidità e la follia, ma anche tra il santo e il diabolico (vedi i sanguinamenti di Adam, a metà strada tra stigmate e sintomi di possessione satanica). E l’epilogo si compie in un aldilà che è tale in tutte le possibili accezioni: un oltre quieto, vasto e spaventoso, che si colloca dopo la fine di tutto ciò che – per nostra fortuna - ci ostruisce la visuale, ritagliando l’orizzonte a misura della nostra capacità di temere, soffrire, sperare e desiderare.
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