Regia di Paul Schrader vedi scheda film
Nella Berlino fra le due guerre, Adam Stein è un illusionista di successo che si esibisce nei cabaret. Nel 1944 viene deportato in un campo di sterminio il cui comandante (che faceva parte del pubblico in uno spettacolo di anni prima) gli impone di camminare a quattro zampe e di suonare il violino per accompagnare i condannati verso le camere a gas: un giorno si vede sfilare davanti la moglie e una figlia, senza poter fare nulla per impedire la loro morte. Nell’Israele del dopoguerra viene ricoverato in una clinica in mezzo al deserto, dove si curano i traumi dei reduci dei lager; qui conosce un bambino che si comporta come un cane (latra, mangia con le mani) e perciò viene tenuto isolato in una stanza. Raccontato così, sembra l’ennesima rivisitazione hollywoodiana della Shoah in stile Spielberg: in realtà è solo un pretesto per sviluppare la consueta ossessione di Schrader, ossia l’elaborazione di un oscuro senso di colpa (incarnato dall’altra figlia di Stein, che dopo la fine della guerra si è sempre rifiutata di rivederlo); e tuttavia è anche un’opera piuttosto anomala nella sua filmografia, legata com’è a un dramma di portata storica e non personale. Non tutto funziona (il personaggio dell’infermiera è irrisolto, il confronto diretto fra Stein e il fantasma dell’aguzzino è banale), ma il giudizio è positivo. Molto bravo il redivivo Jeff Goldblum, clown costretto a usare le risorse della sua tragica ironia per sopravvivere in un mondo assurdo.
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