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Adam Resurrected

Regia di Paul Schrader vedi scheda film

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La recensione su Adam Resurrected

di (spopola) 1726792
8 stelle

Una potente metafora dell’Olocausto e della prevaricazione del potere, una rappresentazione della condizione umana portata alle estreme conseguenze dalla crudeltà di un disegno lucidamente sadico e dei dissidi interiori scaturiti dall’ inconfessato, distruttivo senso di colpa che si sviluppa in coloro che a quel massacro sono sopravvissuti.

Dobbiamo ringraziare la rete e l’home video se alla fine ci è stato possibile visionare Adam Resurrected che come ormai accade con sempre maggior frequenza per il cinema di qualità, nessuno qui in Italia si è preso la briga di rendere disponibile per una distribuzione in sala. Eppure si tratta di un grande film, di una di quelle opere che davvero lasciano il segno e che dovrebbero essere definite di diritto “imperdibili”e “imprescindibili”, e che invece vengono snobbate proprio per il loro essere “problematiche” e “pensanti” (nuova terribile testimonianza dei tempi bui che stiamo attraversando) quasi che la loro fruizione indiscriminata possa in qualche modo infastidire il potere (e in Italia conosciamo bene quali sono le uniche priorità riconosciute da chi ci comanda e come si sia portati a privilegiare tutto ciò che lobotomizza le menti anziché aprirle alla riflessione).

Difficile da classificare per la tenuta drammatica del suo messaggio e per la poliedricità multiforme dei contenuti e delle modalità utilizzate per rappresentarli, è un’opera che conferma per altro in toto lo straordinario talento di Paul Schrader, una delle poche “certezze” rimaste  della ventata innovativa ormai quasi del tutto estintasi nella “maniera”, che aveva rivificato positivamente il cinema americano degli anni ’70), a torto e per lungo tempo considerato soltanto  un ottimo sceneggiatore (una professione che ha onorato con straordinaria efficacia, soprattutto per quanto riguarda il lavoro svolto in tandem con Martin Scorsese), ma che è proprio con il suo passaggio alla regia (già a partire dal suo esordio con Hardcore che è del 1978) che ha dimostrato più compiutamente l’eccellenza della sua ispirazione, spesso lontana dalla “commerciabilità” imposta dagli studios (per loro si sa, il cinema è “solo” una questione di business, un prodotto da vendere per fare quattrini), ma che lo ha reso un nome particolarmente scomodo (di quelli che “non ripagano” l’investimento) a causa proprio di quelle che vengono considerate astrusità  lessicali e anticonvenzionali della narrazione che tengono lontane le masse. Perché Schrader non è mai stato (e adesso men che mai) un cineasta di confezione, di quelli cioè che si adeguano alle circostanze e alle “richieste” imposte dal mercato: lui è uno di quegli autori che preferiscono il rischio (anche dell’impopolarità e dell’insuccesso) e fa di questo suo coraggio di “osare”, una vera e propria “ragione di vita”. Lungi dal cedere alle lusinghe della normalizzazione, continua così imperterrito il suo percorso in solitaria capace sempre di trovare il passo giusto per ogni sua opera, spesso utilizzando anche forme più “sperimentali”  per la messa in scena (come ha fatto appunto in questa circostanza), certamente di più difficile fruizione, ma non per questo meno efficaci e dirette, prive come sono di pretestuosi artifici formali e astrusi cerebralismi a volte utilizzati da altri per sottolineare esclusivamente una bravura tecnica magari priva di sostanza (che anche lui possiede ed è indubbia, ma che non avverte mai il bisogno di sventolare ai quattro venti come dimostrazione “plateale” del suo ingegno e della sua intelligenza e che piega sempre alle ragioni primarie della propria ispirazione).

E’ una strada che ha già percorso con Mishima, Cortesie per gli ospiti, Affliction e Autofocus, tanto per fare degli esempi concreti, e che riprende in forma ancor più esplicita, accelerando la marcia e radicalizzando ulteriormente il suo pensiero, con questa sua ultima spiazzante  fatica (probabilmente la sua opera più meditata e compiuta) per regalarci alla fine un vero e proprio “capolavoro”. Questa volta infatti non era semplicissimo riuscire a trovare la giusta mediazione per trasferire in immagini la densa materia, la complessità delle vicende e la profondità delle emozioni messe in campo dal  romanzo di Yoram Kaniuk dallo steso titolo del 1968 da cui trae origine il film (in Italia, stampato prima nel 1996 per i caratteri di “Theoria edizioni”, e riproposto poi da Einaudi nel 2001).

Schrader è ovviamente il responsabile principale della trasposizione dal romanzo allo schermo, ma una volta tanto però, pur essendo proprio quella la professione che lo ha reso celebre, ha lasciato ad altri l’arduo compito di stendere la sceneggiatura, di elaborare cioè dialoghi “corrispondenti” alla qualità della scrittura del romanziere, e capaci di mantenere intatti anche nelle costruzioni temporali dei ricordi, tutti i succhi e le provocazioni dell’originale, di tessere cioè la trama su cui costruire l’ordito delle immagini.

Il lavoro svolto da Noah Stollman è in questo senso di straordinaria pregnanza (e di assoluta aderenza anche “partecipativa”) e si conferma il tramite indispensabile per raccontare “la storia di un uomo che un tempo era un cane, e che incontra un cane che un tempo era un ragazzo”: qualcuno ha sintetizzato così (con una forma forse un po’ troppo riduttiva, visto che non si sottolinea adeguatamente il contesto tragicamente drammatico che ha determinato la “mutazione”) ciò che poi ci viene mostrato in immagini da Schrader e i suoi collaboratori, ma a me sembra talmente efficace, da farla mia per riproporla “tale e quale” come paradigma esplicativo delle vicende narrate, perché a mio avviso  contribuisce a rendere singolare l’impatto e a  suscitare interesse, a smuovere cioè dal fondo vibrazioni nascoste che possono indurre anche uno spettatore meno accorto ad affrontare l’impegnativo onere davvero ripagante di un recupero dell’opera per una visione casalinga, poiché come ho già detto, Adam Resurrected, oltre a essere una delle vette assolute del cinema del regista, è un titolo che, parafrasando a suo modo sia la parabola del lebbroso che le vicende del “ragazzo selvaggio” di truffautiana memoria,  ci offre anche una originalissima, personale rilettura della nascita dello stato di Israele con tutte le contraddizioni che si porta dietro, contribuendo così a dare alla pellicola una specifica connotazione  “politica” tutt’altro che secondaria. In questo contesto, Schrader dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, non solo di essere un innovativo, straordinario e personalissimo costruttore di congegni narrativi, ma soprattutto di avere la non comune capacità di saperli reinventare per permettere a una scena o a un personaggio di affrancarsi dalla pagina scritta della sceneggiatura, di lievitare e diventare indipendenti e iniziare a vivere così in piena e totale autonomia come voci e corpi cinematografici a se stanti.(Giona A. Nazzaro).

 

Come si può ben comprendere da questa premessa, ci troviamo di fronte a un film molto complesso e non sempre di facilissima e immediata  comprensione (ma se non abbiamo  mandato ormai del tutto al macero i nostri cervelli, è  possibile e salutare farli invece lavorare alacremente per rimettere in gioco anche la nostra intelligenza “critica” e riuscire così a districarsi –  ritrovando il bandolo della matassa  e il senso ultimo delle cose - nei labirintici e tortuosi meandri della psiche per penetrare fino in fondo questa terribile storia di prevaricazione e di “costrizione” mentale coercitiva e perversa che dovrebbe fare arrossire l’umanità, perché niente potrà mai cancellare – anche se da troppe parti si cerca invece di farlo - gli orrori indicibili di un abominio come quello che ancora una volta ci viene impietosamente sbattuto in faccia con l’irrinunciabile, prioritaria necessità  di “ricordare” sempre e comunque come si sono davvero svolti i fatti e ridefinire le “responsabilità” che rimangono  inalienabili “bisogni” primari delle coscienze affinché la memoria non si annacqui nell’indifferenza.

Adam Resurrected, è alla fine allora proprio una potente, mediata metafora dell’Olocausto  e della prevaricazione del potere sul senso dell’umanità, una rappresentazione  della condizione umana portata alle estreme conseguenze dalla “crudeltà” di un disegno malvagio e lucidamente sadico,  e dei “dissidi” interiori scaturiti dal profondo, inconfessato e inaccettabile senso di colpa spesso altrettanto distruttivo, che prende forma  in coloro che a quel massacro sono sopravvissuti: Noi siamo sopravvissuti! Non è un delitto! Il delitto è accusare se stessi per questo. Noi non siamo morti! Chi siamo noi?(…)  Prima faceva male, ora non più. Alzate allora il vostro braccio, tirate su le vostre maniche  e leggete il vostro numero, quello che vi è stato inciso sopra. Noi siamo, per questa notte, un esercito di braccia e di numeri.

La straordinarietà di una messa in scena efficacemente scabra, l’asciuttezza imposta alla rappresentazione dei fatti, rendono il film ancor più “disturbante” e tale da riuscire davvero a trasmettere tutto lo straniamento e il disagio della sofferenza, perchè le inusuali scelte registiche  che privilegiano la “sobrietà” di toni narrativi che rifuggono  dalla enfatizzazione melodrammatica degli eventi, non solo crea un malessere profondo nello spettatore che a volte diventa quasi insopportabile, ma soprattutto evidenzia la capacità del regista di “rapportarsi”, rielaborandola a suo modo, con la “classicità” di una volta, o per essere più precisi, di confrontarsi in diretta con il cinema di una compagine di eccellentissimi precursori di analoga “visionarietà narrativa”, che va (e non sono certo il primo ad averlo notato) dal Bergman de L’uovo del serpente a Von Sternberg, da Lang a Wiene, da Fuller al Fosse di Cabaret (per la pertinente, bellissima ricostruzione del clima berlinese d’anteguerra e della sua carica di spettacolare “sovversività” anche artistica che si portava dietro), tanto per citare i primi nomi che mi vengono in mente da associare alle immagini e ai ritorni, alle reiterazioni e agli scarti che il film impone, e che contribuiscono a rendere anche Schrader un impareggiabile “costruttore” di immagini metaforiche e stilizzate che assumono il senso di una traslazione allegorica – non per questo meno efficace e tragica - della follia del nazismo e della violenta privazione dell’identità che ha imposto a tutti gli internati dei campi di sterminio. Per una volta tanto poi ci viene mostrato il tutto dalla parte non tanto di chi in quei campi c’è stato ed  morto, ma  da quella di chi a quei soprusi disumani è riuscito a sopravvivere, per mettere così in mostra le problematiche orrorifiche del conseguente disfacimento mentale che ne è derivato e che ha condannato molti di quei superstiti alla “dannazione”.

Schrader, interrogato sul perché avesse scelto di fare un film dalle caratteristiche tematiche in apparenza abbastanza lontane dalla sua formazione calvinista, ha voluto sottolineare – e mi sembra importante evidenziarlo - che il suo non vuole essere l’ennesimo film che parla di un sopravvissuto ai campi di sterminio, ma bensì una riflessione sull’evoluzione di un personaggio che, muovendo da un luogo molto buio del cuore, riesce progressivamente a dare un volto e un nome a ciò che lo tormenta per arrivare davvero alla fine a confrontarsi ed affrontare le negatività e i demoni che si sono accumulate dentro di lui (e si  potrebbe quindi persino sostenere che Adam rappresenta davvero per questa sua inquietante dimensione,  la quintessenza del personaggio schraderiano per eccellenza, poiché racchiude in sé tratti che lo riconducono,  assimilandolo a vario titoli,  a molti dei protagonisti delle sue precedenti opere – quelle più “discusse” ed esaltanti, naturalmente).

 

 

Costruito come un percorso “salvifico” (o una specie di redenzione progressiva), il film ha come protagonista  Adam Stein, che è stato il paziente “eccellente” di una clinica che ospita i disturbati “superstiti” dell’Olocausto per tentare di ridare almeno un senso alla loro vita, un luogo futuristicamente asettico (siamo agli inizi degli anni sessanta) costruito in pieno deserto, e rappresentato stilisticamente nella pellicola, con una sobria composizione cromatica tutta giocata sui toni chiari e dove prevale il “bianco”, che si contrappone ai “coni d’ombra” che avvolgono non solo il presente, ma anche le memorie e i ricordi dei sopravvissuti,  tutti virati al “nero” che si riflette cupamente sui frequenti flashback notturni. Ex impresario di circo e conosciutissimo clown della scena (apprezzato prima dell’avvento di Hitler al potere da tutti i tedeschi nonostante le sue origini ebraiche), l’uomo era stato un eccellente uomo di spettacolo, squisitissimo intrattenitore  con spiccate doti divinatorie che saranno poi – come vedremo in seguito - le componenti che “negativizzeranno” il suo prolungato periodo di internato nel campo. Ricoverato alla fine della guerra e per un lungo periodo proprio in quella clinica “riabilitativa”, sembrerebbe all’inizio che sia finalmente riuscito (ma solo in parte come si constaterà subito dopo) a riprendere la sua identità perduta di uomo dopo l’atroce esperienza nel campo di concentramento dove per sopravvivere è stato costretto a fare – nel vero senso della parola - il cane del capitano Klein, diventato il padrone assoluto della sua vita, a scodinzolare ai suoi ordini, a fargli le feste o ad accucciarsi nella gabbia in cui è dovuto vivere rinchiuso  con un altro quadrupede, ad abbaiare riverso a quattro zampe, e a mangiare gli avanzi dal pavimento, a subire insomma tutti i capricci del suo torturatore/salvatore, compreso quello di essere costretto a suonare il violino per ritmare la marcia degli internati al lavoro, mentre sua moglie e una delle figlie  morivano nella camera a gas e l’altra subiva violenze inaudite che la porteranno alla fine  a una comunque tragica conclusione della propria esistenza.

E’ ritornato in qualche modo alla vita,  dunque,  ma con un malessere interiore che spesso si esplicita in una somatizzazione profonda si esplicita in forme di sofferenza reale e in malattie che lo portano vicino alla morte fra emorragie, tumori e crisi epatiche dalle quali sembra però capace di risorgere sempre e comunque.A lungo seguito con particolare attenzione dai medici della clinica  per queste sue insolite qualità che si estrinsecano anche nell’essere a suo modo capace leggere nel pensiero di medici, pazienti e infermieri, e che lo fanno essere un uomo “speciale” che incuriosisce e mette soggezione (quasi un ritrovato” messia” per alcuni dei disturbati internati) è “controllato” e studiato a distanza come una specie di “cavia” da laboratorio, ma grazie alle sue speciali prerogative, gli viene spesso concesso molto di più che agli altri degenti, compreso la tolleranza di un“particolare rapporto” anche sessuale – ma non solo - con la dottoressa assistente che ben lo asseconda nei suoi deliranti “bisogni” mentali.

E’ stato proprio grazie a quella clinica che  Stein è riuscito a riprendere la parvenza di “umana” creatura, ha ricominciato a parlare e a camminare “da uomo”, affrancandosi dal cane che era diventato, e  maturando  conseguentemente una assoluta, motivata fobia per tutto ciò che scodinzola e cammina a quattro zampe. Riportato improvvisamente in clinica dopo un tentativo non riuscito di “soppressione” per strangolamento della proprietaria della pensione che lo ospitata, Adam viene lì sottoposto di nuovo a una degenza per un necessario controllo delle sue condizioni, e questa volta l’uomo avverte la presenza incombente di qualcosa che lo turba e  riporta a galla le sue non del tutto risolte fragilità mentali. Si troverà infatti a confrontarsi con un ragazzo ugualmente recluso nella clinica che non si lascia avvicinare da nessuno,  e che vive chiuso in una cella nudo e legato alla catena, totalmente incapace di camminare “eretto”che mangia dal pavimento e  che invece di parlare,emette semplici latrati (una specie di ragazzo selvaggio alla rovescia a cui accennavo prima, insomma).

I due finiscono per riconoscersi, ma non come fanno gli uomini, bensì con il codice dei cani, partendo cioè dall’annusamento, e iniziano da lì un lungo e paziente percorso per ritrovare davvero e del tutto, se stessi, che porterà da una parte il ragazzo a percepirsi di nuovo “umano” (con l’aiuto di un uomo che è stato costretto a essere a sua volta un cane, e che si estrinseca in una anomala condivisione di “conoscenze” che crea una genuina tensione quasi orrorifica per buona parte del film, che arriva al suo apice nella concitata e a suo modo sconvolgente reinvenzione della sequenza che ricorda quella della tentazione di Gesù nel deserto da parte di Satana, una scena dalla struttura particolarmente complessa ed emblematica, ma magnificamente risolta grazie agli efficacissimi tagli di montaggio, ai raccordi, alla scelta dei tempi, e soprattutto al superbo lavoro degli interpreti), e dall’altra, Adam a confrontarsi finalmente, con un lacerante corpo a corpo con i propri demoni,  con quelle che ha sempre considerato le sue “imperdonabili omissioni” e a seppellire così il Klein che era ormai entrato a far parte del suo dna inconscio, causa primaria delle sue somatizzazioni “pseudo-mortali” (di straordinaria efficacia  il momento in cui, tornato finalmente – ma troppo tardi - in  Israele per riconciliarsi con il suo passato, disteso sulla tomba della figlia, mangia davvero terra e sterpaglie con la autenticità impressionante della verità).

La forma che spazia fra passato e presente, fra il “rivivere” e il “ricordare”, spesso frammentata efficacemente dai salti temporali che riportano Adam  ricordare ciò che lui era una volta, “prima” del campo di prigionia e della metamorfosi straziante che ha dovuto subire  per la costrizione imposta dall’aguzzino e accettata passivamente perché necessaria a garantire una “inaccettabile” sopravivenza, ha espliciti e diretti  riferimenti al teatro, al circo e ai loro “linguaggi”,  oltre che, come si è già accennato, alla  tradizione allegorica della messa in scena, un amalgama anche irridente in alcuni momenti, che crea uno straordinario contrappunto con la psicopatia comportamentale degli internati (tutti di eccezionale efficacia) che trova riflessi “sinistri” non solo nei malati ma anche in coloro che sono chiamati a curarli.

Stupefacente il lavoro sugli attori tutto bravissimi, sui quali  però giganteggia un immenso, stratosferico Jeff Goldblum alle prese con i labirinti mentali di Adam che rende con efficace credibilità in ogni momento, con un senso anche “istrionico” della rappresentazione di una conflittuale personalità come quella che è chiamato a interpretare, davvero da manuale, simile a quella di un clown un po’ surreale e grottesco, costretto a confrontarsi e a combattere il dolore e la disperazione, utilizzando anche la formula un po’ dissacrante della risata. Una prova davvero maiuscola la sua della quale però solo in pochi anche in America sembra che si siano accorti, e che è a mio modesto avviso una delle più potenti espressioni dell’arte recitativa in cui mi sia capitato di imbattermi negli ultimi tempi. Da citare con lui anche il perverso, disincantato cinico sadismo di un Willem Defoe perfettamente a suo agio nei panni del comandante Klein, e la sorniona impassibilità di Derek Jacobi (il responsabile della struttura sanitaria). Tutti però meriterebbero una menzione speciale per la loro perfetta aderenza, e l’elenco diventerebbe davvero interminabile. Devo per lo meno ricordare comunque le preziose, fondamentali presenze fortemente spiazzanti  di Ayelet Zurer (l’inusuale dottoressa “assistente” del primario e “semiconcubima” dell’internato) e soprattutto quella davvero eccellente di Tudor Rapiteanu (David, il ragazzo/cane) , oltre che l’incisiva presenza di Moritz Bleibtreu in un piccolo, ma significativo cameo.

Eccellente la fotografia dai toni cangianti di Sebastian Edschmid e ottima la colonna sonora di Gabriel Yared.

Un film dunque che “deve” essere assolutamente recuperato per la coinvolgente consistenza della sua rappresentazione che è anche (come ha giustamente scritto  ancora Giona A. Nazzaro) la sconcertante dimostrazione della potenza dello sguardo irrequieto di Paul Schrader, un autentico – indiscutibile – maestro  del cinema americano, uno dei pochissimi rimasti a dominare la scena e sul quale è ancora possibile “contare” davvero.

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