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Hadewijch

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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La recensione su Hadewijch

di Kurtisonic
9 stelle

«Ah, sì, non sentire altro che il cuore nel cuore, con un solo cuore e un solo dolce amore; avere una fruizione deliziosa dell’amore pieno; e sapere, al di sopra d'ogni dubbio, che si è integrati nell’unità dell’Amore» (dalle Lettere spirituali di Hadewjich di Anversa).

Definire lo stile e il linguaggio del cinema di Bruno Dumont fino ad Hadewijch (2009) con termini quali radicale, rigoroso, mistico realista, è un dato piuttosto ricorrente verso un regista considerato come un successore di R.Bresson, eppure anche giunti al termine della visione del film ciò che emerge è la sua capacità di sfuggire ad ogni catalogazione destabilizzando lo spettatore  e la sua percezione. Con i suoi dialoghi prosciugati all’osso e una esposizione formale tanto essenziale quanto attenta da sembrare pura casualità dello sguardo, Hadewijch è un frammento del reale che percorre i sentimenti più intimi della società, che con coraggio evidenzia degli aspetti contraddittori e deflagranti che gravitano dentro di essa. Dumont mette a confronto la morale collettiva con l’etica individuale, azzera la distanza tra l’individuo (la giovane Celine) e l’applicazione dogmatica di quei valori che regolano una società in nome di ciò che è giusto o sbagliato. Hadewijch è un film sulla fede nell’amore, sul sentimento estremo che anima la sua ricerca. Celine, aspirante novizia, viene allontanata dal convento dove avrebbe completato il suo percorso religioso, perché viziata dal troppo amore verso Cristo che la porta a mortificare se stessa fino a privarsi del cibo, come fosse un atto di superbia verso le creature più deboli. Ritornata nel mondo, entra in contatto con dei musulmani integralisti, inseriti nella società francese. La giovane continuerà la sua ricerca contornata da mille contraddizioni. Fissità dello sguardo e una cura descrittiva degli ambienti favoriscono un’analisi imparziale degli avvenimenti, il racconto si snoda con chiarezza e sensibilità fin dalle prime battute ma non cade nell’errore di sfiorare col giudizio nessuna delle sue componenti e nessuno dei suoi protagonisti. Per questo suo radicalismo visivo Dumont si differenzia nettamente da quegli autori più celebrati, eletti a portavoce del degrado sociale o dei bisogni di sfruttati e meno abbienti,  dove nei loro lavori si  offre una morale preconfezionata che indirizza inequivocabilmente lo spettatore verso un’interpretazione univoca e obbligata. Dumont non sopprime i punti di vista, non esclude, non razionalizza mai. La distanza con la quale riesce a tenere lontano il pubblico da Celine e dai suoi personaggi in genere, è quella necessaria per chiederci  cosa li anima, cosa li spinge a muoversi. La sua è una mimesi ambientale pressoché perfetta, apprezzabile il suo lavoro sui volti, sulle facce comuni quanto uniche che sanno trasmettere un senso di straniamento e di trascendenza, pervasi da una luce interiore di bellezza struggente ed imperfetta che diventa punto di contatto tra visibile e sentimento. Dumont ne cattura l’essenzialità, la restituisce come una cifra stilistica capace nel silenzio, di parlare e di farsi ascoltare. La casa borghese della famiglia di Celine è la raffigurazione stessa della chiesa del convento, con il suo carico ideale e affettivo, freddo e distaccato dalla realtà, lontano da ogni sentore umano. La tranquillità del borgo francese come lo squallore della periferia parigina si scontrano con i tumultuosi squarci del medio oriente in subbuglio, dove Celine si reca per dare un nome al suo sentirsi martire e dove  i suoi amici musulmani sentono crescere l’estraneità ad ogni luogo. Il duro lavoro manuale e la prigione vera sono anch’esse  costrizioni capaci di creare il distacco dal mondo. Le parole dogmatiche e rivelatrici di una o dell’altra religione restano confinate dietro il muro insondabile della cecità della fede oltranzista.  I silenzi di Celine e del giovane operaio scarcerato che lavora alla ristrutturazione del convento materializzano la possibilità dell’amore, fisico e reale. L’umanesimo laico del regista pur non ghettizzando retoricamente la spiritualità fine a se stessa si esplica fino in fondo come un gesto estremo di ribellione e di spogliazione. In Hadewijc ogni atto è spiegato da quello seguente, si realizza in senso contrario e in grado di offrire una verità, un valore assoluto, la travolgente scena finale ne costituisce l’esempio indiscutibile. La protagonista delusa dal suo vagare incompiuto nel mondo non può che trovare nell’annullamento fisico di sé l’ultima speranza di manifestazione dell’amore.  Frutto di un cinema di rottura degli schemi, che sa vedere ma che non vuole dimostrare nulla fuorché stimolare la riflessione, con Hadewijch Dumont prosegue nella sua azione indagatrice sulla singolarità umana, con una poetica espressiva priva di estetismi e di patine stilizzanti che priverebbero di autenticità il suo amore per la realtà. Amato troppo dai critici (quasi sempre) e ignorato dal pubblico perché penalizzato da distribuzioni inesistenti, Dumont resta purtroppo ancora confinato ai margini della cinematografia ufficiale, in attesa di tempi migliori.

 

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