Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Dumont a chiosa dell’ultima inquadratura del suo film: È il ritorno dell’amore nell’umanità. È la morte di Dio. Dio ha condotto Céline dritta contro un muro. Per me, lei muore alla fine: ma, per caso, passa un uomo, e la salva.
Gli si può forse obiettare qualcosa? Il regista francese mette in scena una ricerca di Dio fatta di rinunce, automortificazioni, impazienza e infine disperazione non solo infruttuosa ma folle, che si concreta nell’atto terroristico da parte di Céline e del suo amico islamico. Céline, è solo la carne viva di un David qualunque che la può salvare: quella carne la cui assenza lei sembra non riuscire a trascendere in alcun modo. Qualunque persona di buon senso lo capirebbe…
Ma il Logos è molto scaltro, terribilmente sottile, e si insinua tra le pieghe: il pertugio lo trova sempre.
Cos’è, anzitutto, la mistica? È quella dimensione dell’essere che intende raggiungere chiunque aneli a un contatto col Dio interiore, col Deus absconditus il più diretto possibile, sperimentabile, un contatto ammissibile solo a patto che il corpo si spiritualizzi e il divino si corporifichi, in un vicendevole quanto necessario riavvicinamento dei due piani, alto e basso, materia e Spirito. Come si suol dire in termini di pietà popolare, per ogni passo che farai verso Dio Dio ne farà due verso di te. Da qui tutta una serie di tecniche e di pratiche con le quali, in tempi e luoghi diversi, si è cercato di codificare il modo per raggiungere tali stati alterati della coscienza.
Il mistico, in buona sostanza, è colui che cerca di penetrare il mistero (si noti l’uguale etimo), l’enigma rappresentato dal nocciolo più profondo e nascosto del proprio essere. Ma qualunque mistico sano di mente (potrebbe sembrare un ossimoro, e in effetti lo è) sa che la ricerca è interiore, non esteriore: sa che il tempio è il corpo, non un edificio di pietra.
Il mistico è colui che col proprio Intimo ricerca il corrispettivo di un rapporto erotico: è un vero e proprio accoppiamento ciò che il mistico agogna, ed è il motivo per il quale i testi di tali campioni dello Spirito (quelli vergati da mano femminile in particolar modo) traboccano di vere e proprie metafore sessuali, potenti riferimenti a un’erotica spirituale tanto vivida che uno sprovveduto potrebbe scambiare il Cantico dei cantici per un raffinato libro erotico settecentesco. L’esperienza estatica, ineffabile per definizione, non ha insomma mai trovato miglior correlativo oggettivo del linguaggio amoroso, della metafora sessuale, l’una (la mistica) essendo archetipo dell’altra (che ne è copia sbiadita), e non il contrario.
Tale dialettica tra il dentro e il fuori, tra ciò che proietta e ciò che è proiezione, tra originale e copia il film la fa baluginare quasi subito attraverso un simbolo: la croce. O meglio, attraverso una dicotomia: la croce-gru all’esterno, il crocifisso appeso alla parete cui Céline rivolge ginocchioni la sua preghiera all’interno.
Chiunque mastichi qualcosa di Tradizione sa dell’enorme differenza che corre tra croce e crocifisso: l’una è un simbolo primordiale di carattere operativo. L’altro è la cristallizzazione che di quel simbolo ha fatto la chiesa cattolica, usa da sempre a questo genere di pratiche mortifere laddove il mistero (vivo e sperimentabile) è stato puntualmente tramutato in dogma (inerte e adatto invece all’esercizio di un potere di mera marca mondana).
Potrebbe, dunque, Céline, pur desiderandolo ardentemente, raggiungere l’agognato contatto con Dio attraverso un crocifisso? No, assolutamente no (motivo per il quale, e lo dico solo per curiosità, i templari sul crocifisso ci pisciavano sopra, letteralmente. Finirono poi anche con questo pretesto coll’essere accusati e condannati per eresia – ma questa è un’altra storia).
E qui c’è una prima chiave per decodificare il messaggio logoico del film: i piani vanno ribaltati. Ciò che è interno va letto come esterno, l’esterno come interno, laddove, come insegna la legge ermetica per eccellenza, l’esterno è il basso: proiezione, riflesso, ombra manifesta; l’interno è l’alto, idea platonica, nucleo pulsante, luce invisibile. La croce operativa è dunque proprio la gru (sulla quale, guarda caso, David lavora), mentre il crocifisso è un simulacro di morte, cintura di castità perpetua serrata con tripla mandata sulla croce-spada (la croce rovesciata – o estratta dalla roccia – diventa infatti una spada).
L’altra chiave è il Gesù di pietra dietro le sbarre: è irraggiungibile, è apparentemente vicino ma di fatto lontanissimo: le sbarre negano a Céline il contatto che ogni esperienza mistica esige per statuto, e l’unica mediazione possibile è quella dei nodi votivi che sulle sbarre sono legati a decine. È una contraddizione irrisolvibile, in apparenza, quella del Cristo pietrificato, perché Céline ciclicamente vi torna a far capolino e ogni volta l’esito, sconfortante, è sempre lo stesso: la disperazione data dalla separazione.
Ma attenzione: perché è proprio qui che si crea quella meravigliosa assonanza analogica che costituisce il lampo, lo squarcio del Logos che irrompe e si manifesta: il Gesù chiesastico, il Cristo crocifisso al legno, ovvero il Gesù patibolare di pietra trova il suo corrispettivo rovesciato in un uomo, David, che come il Cristo è imprigionato dietro le sbarre. David è per analogia il vero Cristo salvatore del film, il Cristo vivo e pulsante, è quello Spirito che si corporifica, che fa due passi verso chi, Hadewijch, un passo verso di lui lo ha già compiuto.
La scena finale, che a un certo livello di analisi mette in scena un tentativo di suicidio, interpretata a un’ottava più alta è una scena di morte mistica, di morte iniziatica: Céline/Hadewijch muore nell’acqua perché dall’acqua possa rinascere: una sorta di ordalia, di battesimo: David (si rammenti che era dalla stirpe davidica che Gesù proveniva), il Cristo liberato, non più imprigionato, Cristo pietra viva, può salvare colei che per Lui è appena morta: ciò che non può fare il simulacro chiesastico (ovvero il divino sclerotizzato dalle chiese, la cattolica tanto quanto la islamica con la sua piccola jihad): il contatto mistico, sotto forma di abbraccio erotico, può finalmente darsi: eccola l’esperienza mistica, l’unico vero momento mistico di tutto il film che solo una scintilla poetica poteva far lampeggiare negli occhi di chi guarda, e al cui confronto la scena in chiesa davanti al crocifisso e ai musicisti è un conato, una parodia, o semplicemente l’idea che dell’esperienza mistica si è fatto il regista.
Il profano in quell’abbraccio vedrà quella carne che Céline tanto agognava e che non avrebbe mai potuto ottenere se non appunto attraverso un’esperienza umana troppo umana: sorta di ancora di salvataggio dalle fantasime ultramondane; l’occhio addestrato alla scienza sacra ci vedrà una potente analogia mistica, e il primo passo verso il disvelamento dell’enigma che la Sfinge pone sempre ai suoi.
Va da sé che l’abbraccio salvifico di Hadewijch con David fa parte di una dinamica interiore, di una dimensione tutta intima dell’essere (non è lo stesso Dumont a esortare a considerare Hadewijch come un’astrazione, un sentimento?). E la morte iniziatica che ne è necessaria premessa è potentemente annunciata dal corvo – simbolo alchemico della fase nigredea – nel quale la ragazza si imbatte, sotto una pioggia scrosciante, in mezzo agli alberi del convento.
Unico neo del film: l’orchestrina sulla Senna, la cui aberrante cacofonia fa venire voglia di tirarsi un colpo di rivoltella sugli zebedei e, nel caso, mandare inevitabilmente a carte quarantotto ogni mistica amorosa (perché, operativamente, gli zebedei servono, almeno per un maschio).
P.S. Il nome iniziatico Hadewijch che Céline si sceglie appartenne a una poetessa mistica fiamminga vissuta a cavallo tra XII e XIII secolo.
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