Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Ciò che si ama, e l'atto stesso di amare, sono invisibili agli occhi. Possono percepirsi dai tentennamenti, dalle esitazioni del reale, dalla conseguenzialità armonica o disarmonica delle immagini, ma divengono tangibili solo nella misura in cui siamo in grado di sbirciare nelle intersezioni di ciò che osserviamo, intersezioni che costituiscono in realtà il tessuto stesso della nostra esistenza quotidiana, quella che ogni giorno conduciamo, un'emozione dopo l'altra. Sotto la calma piatta apparente, che poi è un incedere in cui armonico e attonito collimano in una paradossale neutralità, la tensione verso l'invisibile è un atto d'amore totalizzante e immerso nel relativo esistere, e possiede dunque la svelta dinamicità di un inseguimento in moto o la potenza di un pianto disperato alla ricerca di un nuovo obbiettivo, di un nuovo ottenimento esistenziale. Tutto questo è inevitabile, per lo sguardo che sonda lo spazio fuori dal tempo, e ne scopre l'altalenante leggadria e lo spossante grigiore: la normalità spaccata dal sentimento, pungiglioni aguzzi di pura tenerezza. Diveniamo dunque quello sguardo, che non può celare l'innato e inevitabile topos umano della ricerca, della tensione, l'irrinunciabile rincorsa all'inafferrabile, in quanto necessità umana ed esistenziale. Un silenzio solo apparente che è infausta lotta, una legge spirituale del più forte, un contatto ravvicinato di materiale ed evanescente. Hadewijch, questa stessa espressione, questo stesso nome, scorre terribilmente aggraziato sulle labbra di Céline, incarnazione stessa di una sofferente purezza, angelica forma costretta a riappropriarsi di un corpo e di un contesto di cui al contempo non è in grado di fare a meno, immersa com'è negli antipodici contrasti formali di una città come Parigi e di una campagna francese verde e sterminata. Céline è pura attrazione verso l'Infinit(amente Pur)o, sostanza spirituale alla ricerca di una dolorosa ascesi, di fronte al palpitante reale in cui Dio è assente ma è presente, non è visibile ed è sostanza di cui lo spazio osservato è intriso. E' questa la sfida di Bruno Dumont, scoprire quelle intersezioni, rivelarne il meccanismo puramente emozionale, intesserlo come una ragnatela su volti, corpi, stanze, strade, alberi, monasteri, lasciarlo emergere proprio come Dio e la Purezza che, in maniera assolutamente naturale, emergono fra le foglie, fra i nascondigli, fra le acque della superficie di un lago.
Céline cammina, ripercorre strade già viste e già conosciute, va ad osservare una misteriosa apertura bloccata da delle sbarre, e vi si appoggia attratta dal buio. Céline fa amicizia con un altro corpo, Yassin, e si fa trascinare dalla sua ingenua virilità in furti di moto e infrazioni del codice della strada. Céline porta nel mondo dei bar e dei lungofiume la sua (in)naturale propensione verso l'astratto, verso Dio, verso una divinità che poi è atto stesso di amare, forse nella volontà di essere discontinuità, nel pallido candore smorto di una realtà deformante. Céline si confronto con un altro credo, con un'altra fede, incapace di guardare ad altro se non a Lui, incapace di comprendere come la concretizzazione dell'astratto è un'esplosione istantanea e incomprensibile che oscura la vista con il suo fumo grigio. Céline entra in una chiesa, si fonde e si confonde con gli sfondi immacolati e cerca di "vedere" la musica formatasi da un violino, avvicinando idealmente lo sguardo (così come aveva fatto poco prima ad un concerto) e creando una mistione di immagine e suono che sembrano essere finalmente una cosa sola. Céline si ferma a pregare e noi facciamo dei passi verso di lei, zoomiamo il nostro sguardo, camminiamo, viviamo quel movimento e preghiamo con lei, incapaci di concepire una Fine o un Inizio, sbalzati via dalle nostre normali coordinate. Céline parla, piange, avverte la sua corporeità e la sua stessa condizione di prigioniera (le sbarre) di un'esistenza incolmabile in cui è l'atto umano disinteressato la vera manifestazione dell'impossibile-perché-invisibile. Céline è un'Ofelia senza rose, una donna che offre il proprio corpo all'erotismo spirituale, una pallida parvenza di sofferenza e gioia umana, una congiuntura flebile e compassionevole di tutto ciò che il Reale è capace di vomitarle (figurativamente) addosso. Un piccolo miracolo. Dumont ha unito lo sguardo, i sensi e le emozioni in un'eccezionale scatola filmica in cui vogliamo essere imprigionati e di cui vogliamo buttata la chiave, perché l'armonia di ideale e reale, contaminata da brevi commenti sui fanatismi, vive nelle sue inquadrature, in quei bordi, in quelle campiture, in quegli spazi solcati, attraversati, scavati dai nostri occhi, per una visione attiva e partecipe di un essere umano come è umano uno spettatore qualunque, che possa immergersi nel fluido senza tempo di quel gioiello dumontiano che è Hadewijch.
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