Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Hadewijch (Julie Sokolowski) è una novizia che viene invitata dalla madre superiora (Brigitte Mayeux-Clerget) ad interrompere la sua permanenza al monastero perché l’intransigenza estrema del suo percorso di fede mal si adatta al rispetto ordinario delle regole dell’ordine. Una volta fuori, Hadewjich ridiventa Cèline, figlia di un diplomatico francese (Luc-Francois Bouyssonie), ma rimane sempre serva devota di Gesù Cristo. Conosce Yassine (Yassine Saline), un giovane arabo che abita nella zona periferica di Parigi, e grazie a questi il fratello più grande, Nassir (Karl Sarafidis), un animatore di riflessione religiosa. Nassir è un integralista islamico e crede nella bontà delle azioni di lotta. Tra Cèline e Nassir si istaura un intenso dialogo di religione. Cèline è sempre alla ricerca del percorso di fede più consono alle sue esigenze spirituali, questo la rende aperta ad ogni possibile esperienza, anche la più pericolosa.
Tutti i personaggi dei film di Bruno Dumont sono portati al limite delle rispettive esasperazioni emotive. Così è per i ragazzi inquieti della sperduta periferia francese (“L’età inquieta”), persi nelle voragini della noia e accompagnati da una sensazione idistinta di abbandono ; così è per Pharaon De Winter (“L’umanità”), figlio diretto delle sue ferite più lancinanti e sempre prodigo di una compassione che lui non riceverà mai ; così è per gli immalinconiti ragazzi della campagna delle Fiandre (“Flandres”),appassiti come una guerra che non comunica mai niente di buono. Tutti mostrano di avere un legame con il territorio che vivono che va oltre la mera occupazione di uno spazio e ognuno si rende partecipe di una forma di riflessione che è fisica e morale insieme, che parte dalle sensazioni mute di un’incomunicabilità senza rimedi per approdare ad una frustrazione dei corpi che diventa il modo più semplice ed istintivo di mettere in mostra la loro incompiutezza esistenziale. Il tipo di malessere che caratterizza i personaggi di Bruno Dumont, è non tanto il frutto di forme acclarate di disagio sociale, quanto la diretta promanazione di di pulsioni dello spirito che producono domande senza ricevere risposte soddisfacenti. Con “Hadewjich, Bruno Dumont accentua ancora di più questa matrice filosofica che caratterizza la sua filmografia (non a caso, lui è stato un professore di filosofia), caratteristica fondamentale direi, in quanto rende decisamente importanti, più degli sviluppi delle vicende rappresentate, le riflessioni speculative che sottintendono. Cèline incarna la persona totalmente assorbita dall’amore per Gesù Cristo, accetta senza remore l’amicizia di Yassine, con lui effettua anche delle pericolose scorribande in moto in giro per Parigi, ma ne rifiuta le avance, il suo corpo è già stato promesso al suo Dio e lei aspetta solo di poterlo ricevere. Quello di Cèline verso Gesù Cristo è un amore vissuto in senso assoluto, talmente assoluto da risultare “irregolare” anche per le suore del monastero, talmente irregolare da aprirsi all’interpretazione di ogni idea sul manifestarsi di Dio tra le cose del mondo. “Il mondo le darà più occasione del monastero per mettere alla prova il suo amore per Dio”, dice la priora (Michelle Ardenne) per giustificare l’allontanamento di Cèline dal monastero ; “Occorre agire se ha fede. Bisogna continuare l’opera del creatore. Non è restando così, soffrendo, che lo lascia manifestarsi. Ma agendo nel mondo”, gli dice Nassir più tardi. Due asserzioni che partono dalla comune idea che non è necessario distaccarsi dalle vicende del mondo per avvicinarsi alla volontà divina. Ma mentre la prima esige il canonico rispetto delle regole, perché è “la regola che ci protegge e ci guida”, la seconda presuppone come unica regola da seguire quella di combattere contro le perduranti iniquità planetarie, perché Dio è “la spada contro l’ingiustizia, è la nostra lotta”. Entrambe le posizioni, pur giungendo a finalità differenti, rifiutano con decisione il rigore spirituale di Cèline, il suo assentarsi insistito dal mondo, ne apprezzano la tempra morale, ma non possono mettere in discussione la validità delle proprie posizioni dogmatiche accogliendone in pieno l’afflato devozionale. Il “dogmatismo” di Cèline si chiude al mondo perché è aperto al raccoglimento del corpo di Cristo, la sua è una questione esclusivamente privata senza troppe implicazioni trascendenti, frutto di un atteggiamento che oscilla tra il consapevole e l’istintivo, tra un estasi mistica ostinatamente voluta e una ricerca di Dio tra le cose terrene che la mette a nudo di fronte alle debolezze della carne. Il modo di essere di Cèline (davvero brava l’esordiente Julie Sokolowski) è talmente dipendente dalla naturale manifestazione delle sue più pure pulsioni spirituali, da non poter prescindere dai rischi possibili che si accompagnano ad un evidente vulnerabilità emotiva. Bruno Dumont agisce attraverso la contemplazione mistica di Cèline per riflettere sulla ragionevolezza concettuale di ogni posizione religiosa, e usa diverse sequenze per accentuare i connotati simbolici dei suoi intenti speculativi : una cantata di Johann Sebastian Bach in una chiesa semivuota e un fascio di luce che avvolge ad un tratto il volto di Cèline ; un treno della metropolitana che parte e un esplosione fragorosa che interrompe la quiete cittadina ; un denso polverone che si staglia all’orizzonte e una pioggia torrenziale che scende all’improvviso come a voler lavare ogni impurità. Immagini spogliate di ogni elemento superfluo, che forniscono notizie concrete e che possono bastare a se stesse, ma che, evidentemente, sottintendono molto altro. Così è anche per la figura di David (David Dewaele), un giovane muratore che conosce anche l’esperienza del carcere, un personaggio che fa spesso capolino nelle vicende del film, fino a ritrovarcelo nel bellissimo finale (che cita “Mouchette” di Robert Bresson), quando stringe a se Cèline in quello che sembra un abbraccio salvifico e definitivo per entrambi. Perché è probabilmente vero quanto già messo in evidenza da Emidio (Bradipo) nella sua recensione a questo film, e cioè che Dumont segue uno schema narrativo che “invece di dare delle risposte continua a far porre delle domande”. Grande film. Per concludere, mi sembra che Bruno Dumont sia interessato all’uomo inserito nel disegno dell’universo e che riflette questa cosa muovendo dalla problematizzazione affatto dogmatica di moventi religiosi. Questo aspetto fondamentale della sua poetica, unito ad un rigore stilistico protratto con coerente essenzialità formale, genera più di qualche assonanza con autori come Carl Theodor Dreyer, Ingmar Berman e Robert Bresson. Ora, se pure non arriva ai loro esiti artistici, credo si possa dire che Bruno Dumont ne ha saputo “attualizzare” taluni assunti concettuali con una tale efficacia cinematografica da meritarsi l’attributo di autore importante nel panorama del cinema contemporaneo.
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