Regia di Sofia Coppola vedi scheda film
Leone d’Oro a Venezia tre anni or sono. Somewhere. Qualche posto. L’avevo evitato finora dando retta ai consigli di amici ed utenti di FilmTv già scottati. Ma la curiosità era troppa e non ho resistito all’incorreggibile fascino di un dvd da bancarella, saldo di fine estate, ad 1 euro. A fine visione sono tanti gli interrogativi che sballonzolano per la testa, dal necessario: ma se Sofia non era figlia di cotanto padre? Al più sacrilego: con cosa le hanno tagliato l’ultima dose? Cerchiamo comunque di rimanere obiettivi: il film si dipana in un vuoto pneumatico che la regista cerca di trasmettere allo spettatore.
Ci dev’essere stato un piccolissimo misunderstanding, però. Non si descrive un disagio, vuoi sociale, vuoi spirituale, per quanto pittato di lusso dorato, girando un film vuoto, inconsistente e privo di qualsiasi spessore. Se Jacques Cousteau, per farci vedere il l’oceano, avesse buttato la macchina da presa in mare tenendola a mollo e ritirandola su due ore dopo avrebbe ottenuto il medesimo grezzo risultato della Coppola nel suo voler scrutare il sociale, ed immagino anche senza vincere nessun prezioso felino ad alcun festival...
Il film inizia con una Ferrari in loop su un circuito che la telecamera fissa scorge solo in due passaggi, come un orologio fermo che per due volte al giorno segna, per forza di cose, l’ora esatta.
Gira in loop anche il resto del film però, forse non con la telecamera ferma ma col protagonista annichilito nel/dal suo dorato sopravvivere, uno Stephen Dorss con l’avambraccio sinistro bloccato dal gesso per la maggior parte del film, anche se si fa una fatica bestia per distinguere l’arto ingessato manualmente, dal rimanente corpo mummificato nature.
Noi infine, che dovremmo tirare le somme dal vagare sgangherato di questo presunto famoso attore statunitense, che stranamente non tira di coca ma abbonda sul bere, sul copulare con tutte le femmine che capitano (quando non s’addormenta) e cucinare spaghetti cosi scotti che verrebbero rifiutati pure in un campo profughi; riusciamo a sommare i sbadigli causati da scene reiterate, docce affannose, videogames sbiaditi, stucchevoli giri in auto ed un pazzesco e deprimente siparietto italiano, con un Telegatto piazzato al nostro eroe, al quale (siparietto), non comprendiamo (o non vogliamo) come e perché, abbia acconsentito a partecipare anche il nostro Maurizio Nichetti. Scorgiamo forse, come unico sprazzo introspettivo, lo sguardo torvo con il quale la figlia fulmina la Chiatti accappatoiata materializzatasi una mattina a colazione dopo un’evidente notte brava col suo papà, mentre eleggiamo a miglior performance di Dorff i quaranta minuti sepolto con la maschera di lattice e gomma.
Poi si ricade in un’impalpabile routine dissennata che non comunica, non espone, non evidenzia, non.
Attendiamo un finale che riveli anche chi bombarda Dorff di sms colpevolizzanti (la Chiatti, la moglie, l'assistente sociale, la Coppola, se li manda da solo?), ma non ci sarà dato sapere o forse mi sarò addormentato io al momento della magica rivelazione.
Il papà della bimbetta sprecherà nel vento le uniche parole di saggia consapevolezza pronunciate in tutto il film e lo seguiremo, ancora, nell’ultimo, lento peregrinare verso il nulla... the end.
E poi ci chiediamo perché ungheresi o coreani, dopo questi exploit, dovrebbero farsi scrupoli...
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