Regia di Sofia Coppola vedi scheda film
"Che cosa succede quando sei solo con te stesso allo Chateau Marmont, nel momento in cui devi guardarti allo specchio, che è sempre spaventoso per tutti? Ci sono così tante distrazioni nella vita moderna, specialmente nella cultura che circonda lo show business a Los Angeles: puoi restare distratto per sempre... Quand'è che metti da parte quelle distrazioni e guardi veramente te stesso? L'intenzione era quella di prenderci del tempo per stare da soli con Johnny, la sceneggiatura era molto minimale".
[Sofia Coppola]
Johnny Marco (Stephen Dorff) è una stella di Hollywood: vive in albergo, il leggendario Chateau Marmont sul Sunset Boulevard di Los Angeles, è divorziato, viaggia in Ferrari, trascorrendo la sua esistenza in un narcotico loop di alcool, droghe e sesso, in cui, apparentemente apatico, gira intorno ai suoi desideri senza mai soddisfarli realmente. Ferma il tempo, si distrae da tutto, mai per prendere coscienza dell'abisso che lo inghiotte, ma solo per isolarsi in lunghi silenzi in cui sguardo e pensieri si confondono l'uno negli altri. È, per certi versi, un collezionista di esperienze atipico, che cataloga con indifferenza le monotone istantanee della realtà in cui sopravvive senza trarne alcun godimento (e d'altronde ha già avuto tutto e può permetterselo). Naturalmente si dimentica di tutto: gli appuntamenti sul set, le conferenze stampa, le feste, i nomi delle persone: non proprio tutti, quelli della sua agente Marge e del suo amico Sammy (Chris Pontius) li ricorda sempre. E di certo non dimentica quello di sua figlia Cleo (Elle Fanning), undicenne, avuta dall'ex-moglie Layla (Lala Sloatman). La vede poco, soltanto nei giorni in cui gli viene affidata, ma lei lo adora e lui le dedica molte più attenzioni del previsto. Certo, le sue attenzioni significano al massimo qualche giro in Ferrari o qualche accanito match ai videogiochi, ma neanche si rende conto che, in quei brevi momenti che trascorre con lei, arriva a sembrare quasi una persona normale. A costringerlo ad aprire gli occhi interviene casualmente Layla, che costretta improvvisamente ad assentarsi, gli affida Cleo per alcune settimane in attesa del campo scuola estivo. Johnny, che sta per partire per l'Italia per essere premiato alla serata dei Telegatti, è così costretto a farsi accompagnare dalla figlia: alloggiano insieme negli hotel di lusso di Milano, assistono e partecipano a cerimonie ed interviste, per poi fuggire sconcertati dall'ondata di idiozie mediatiche tricolori da cui sono stati travolti. Tornati a casa, riprendono ad oziare serenamente, tra giochi, tuffi in piscina e relax sotto il sole dell'estate, fino al giorno della partenza di Cleo per il campo scuola: Johnny la accompagna e soltanto nel momento in cui si separano comprende quanto sua figlia abbia bisogno di lui. Le domanda scusa per la sua assenza, la saluta e torna alla sua vita: ora, però, davanti allo specchio, si vede diverso. Telefona in lacrime a Layla: "Mi sento meno di niente", le confessa singhiozzando, "non sono nemmeno una persona". Adesso intravede "qualcosa" quando osserva il panorama della città dalla terrazza della sua camera d'albergo, il suo sguardo oltrepassa le luci della skyline di Los Angeles e vola oltre, guidato da una coscienza di sè finalmente risvegliata: all'alba di un giorno "nuovo" paga il conto dell'hotel e fugge via, da qualche parte, somewhere...
Quarto lungometraggio diretto da Sofia Coppola, glorificato dal Leone d'Oro a Venezia ma, duole ammetterlo, assai distante, per incisività di sguardo e fascino delle seduzioni visive adottate, dai vertici artistici raggiunti con Lost in Translation, con il quale questo Somewhere presenta più di un elemento in comune (il divo, l'albergo, la solitudine, la ricerca della felicità...). Un road movie della coscienza, dove la strada da percorrere è esclusivamente interiore e conduce alla salvezza (e, quindi, alla felicità): nulla, però, che Sofia Coppola non abbia già esplorato e "tradotto" in immagini con esiti più ammalianti. Stona, ad esempio, nell'economia complessiva del film, un evidente difetto che, paradossalmente, diviene al contempo anche un suo punto di forza, ovvero lo stridente contrasto tra la rarefazione delle atmosfere (e la tendenza della narrazione all'astrazione simbolica) con i toni e le movenze frettolose che conducono al finale, come se la traduzione drammaturgica del "risveglio" del protagonista e l'impellenza di recuperare il tempo perduto necessitassero di un'ulteriore sottolineatura "grammaticale" nel mutare improvvisamente registro (la telefonata in lacrime all'ex-moglie, "Scusa per non esserci stato mai" gridato alla figlia): ma se l'oggetto del contendere va identificato nella banalità del vivere, l'improvviso contatto con la realtà, l'acquisita "consapevolezza di sè", allora, non possono che esplodere senza freni nella banalità di reazioni prima represse e poi lasciate fluire di getto, banali perchè di primordiale spontaneità, istintive manifestazioni dell'improvviso rifiuto per una vita artificiale da cui è arrivato il momento di fuggire. La fretta di chiudere cerchio e discorsi, quindi, materializzata in un finale di plateale ridondanza, discusso e discutibile, si trasforma, così, per coerenza di scrittura, da difetto formale in punto di forza. Non del tutto convincente, però, perchè in ogni caso finisce per disperdere l'incisività di sguardo sul tormento del personaggio e le suggestioni evocate dall'andamento indolente ed ipnotico del racconto, oltre che smarrire completamente quel controcanto ironico che ne illuminava i pochi guizzi, connotando il film, in definitiva, come la fisiologica reazione dell'autrice allo sfarzo e alle fatiche di Marie Antoinette, l'espressione, cioè, affascinante ma irrisolta, della sua esigenza quasi opprimente di uno spazio di riflessione, di un non-luogo, come quelli abitati dal protagonista del film, in cui isolarsi e ritrovarsi (metaforicamente in completa sintonia, quindi, con il percorso del suo Johnny Marco). Somewhere è, poi, un film sulla disperazione e, come tale, percorso dagli umori sommessi dell'alienazione incipiente: lunghi silenzi, sguardi persi nel vuoto, reiterazione meccanica di gesti e parole, magistralmente resi dall'interpretazione del suo catatonico protagonista (un credibile Stephen Dorff) ed accompagnati dalla staticità dei piani sequenza con cui la macchina da presa li osserva registrandone ogni interiore turbolenza. Ed è anche un film sullo show business e le sue degenerazioni, ritratte in tutta la loro vacuità e stupidità dilaganti (la trasferta italiana dei protagonisti, volutamente ed impietosamente di cattivo gusto, banale e, nell'insieme, raggelante, ma, soprattutto e purtroppo, tremendamente reale). Nel cast un'apoteosi di cameo di lusso, da Benicio Del Toro (la gag in ascensore tra lui e Stephen Dorff: "Ciao, Benicio!", "Ehi! Numero di stanza?", "59", "Mi hanno presentato Bono alla 59"...) a Michelle Monaghan e comparsate (s)cult come quelle di Simona Ventura, Nino Frassica, Maurizio Nichetti, Valeria Marini, Jo Champa, Laura Chiatti, Giorgia Surina. Magnifica, infine, la fotografia di Harris Savides (The Game - Nessuna regola, Elephant, Last Days, Zodiac, Milk, Basta che funzioni tra i suoi titoli più celebri) e splendida, come consuetudine nel cinema di Sofia Coppola, la colonna sonora, che l'autrice affida alla band del suo compagno Thomas Mars, i parigini Phoenix, che propongono la meravigliosa meravigliosa Love Like a Sunset (con la Part I del brano durante i titoli di testa e la Part II che anticipa nei titoli di coda la cover di Bryan Ferry di Smoke Gets in Your Eyes) e dove spiccano altre perle come My Hero dei Foo Fighters (durante la prima lap dance nella camera dell'hotel), I'll Try Anything Once degli Strokes e, soprattutto, l'irresistibile pop-revival anni Ottanta di Cool di Gwen Stefani, che accompagna l'esibizione di Elle Fanning durante la lezione di pattinaggio artistico, non a caso una delle rare sequenze realmente raffinate (e memorabili) del film (insieme alla seduta di Dorff con i maghi del make-up). Un passo indietro.
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