Regia di Sofia Coppola vedi scheda film
Premetto subito che non sono un cultore del cinema di Sofia Coppola. Nel senso che il suo stile non incontra il mio entusiasmo, anche se ammetto di avere visto tutti i suoi tre film precedenti, con giudizio progressivamente calante. Ricordo il bellissimo "Il giardino delle vergini suicide" dal cui fascino malinconico fui irrimediabilmente sedotto. Il successivo "Lost in translation" invece, che per molti divenne un cult, riuscì a soddisfarmi solo a metà. E infine quel "Marie Antoinette" che colse quasi unanime consenso mentre io lo trovo tuttora piuttosto sopravvalutato. Ma anche questo "Somewhere" ha suscitato quasi un plebiscito di elogi nel corso della recente presentazione al festival di Venezia. E anche questa volta mi trovo a dover rilevare un atteggiamento della critica eccessivamente generoso nei confronti della Coppola. Non è un brutto film, è recitato discretamente da uno dei due protagonisti e magnificamente dall'altra. Quello che non va è una vacuità di fondo dell'opera che ne mina sostanzialmente la credibilità e il senso. La critica ad un mondo -appunto- vacuo, è condotta con altrettanta vacuità. E alla fine lo scenario e i personaggi risultano qualcosa di alieno, di troppo distante per potersi rendere interessanti. I vezzi degli artisti e i loro vuoti di vita sono raccontati con stile stanco, noioso, lento, incapace di appassionare. Inquadrature persistenti, interminabili, accompagnate a silenzi sconfortanti, e ad attori che sembra non sappiano neppure dove mettere le mani o dove guardare. Sbadigli. Raffinati, intellettuali, postmoderni, post new wave, indie...ma comunque sbadigli. Verrebbe da chiedere alla Coppola: "senti, scusa, ma cos'è che ti opprime? cosa c'è che non va? scopri solo ora che gli artisti sono spesso narcisi con poca arte e con nessuna parte? fino ad ora in che mondo sei vissuta?". Il protagonista Johnny Marco, personalmente, non lo vedo come un uomo travagliato e fulminato dalla consapevolezza sulla via di Hollywood, ma bensì come un immenso cazzone che finchè gli fa comodo infila uno dietro l'altro tutti (ma proprio tutti) i clichès della cine(rock)star viziata (dall'alcool agli psicofarmaci passando per l'immancabile "gnocca facile"). E mi scappa da ridere se penso all'ipotesi di un percorso di redenzione attraverso il volontariato (è ciò che gli suggerisce la moglie, quando, verso la fine, in preda ad una crisi violenta di identità, cerca conforto telefonico presso la compagna separata, la quale però gli nega la propria presenza). No, basterebbe che quest'uomo rinunciasse anche solo per un giorno ad alberghi di lusso, mignotte da sbarco, maggiordomi e servitù, e si calasse nella vita di un cristo qualunque...ma si sa come son fatti gli artisti, loro mica si sporcano con la gente grigia come me e (presumo) voi, che ogni mattina gli suona la sveglia alle 7; no, loro vivono con un piede nel delirio e con l'altro nell'anarchia, loro pretendono sensazioni forti e che si materializzi il desiderio sùbito, senza aspettare. Magari capita che ogni tanto, nella loro poca umiltà dominata da onnipotenza narcisistica, si apra uno squarcio di lucidità, come accade al nostro Johnny, il quale si riduce a piangere e ad invocare, nella penombra di una perfetta solitudine, l'aiuto della moglie, aiuto che non arriverà mai. E allora che farà Johnny? Non ci è dato saperlo, dato che il finale è più che mai aperto alle ipotesi dello spettatore (probabilmente perplesso, lo spettatore intendo, non Johnny). Film d'Autore, e dunque in qualche modo pretenzioso. E come per ogni film d'autore, la domanda sorge spontanea: "Cosa avrà voluto dire l'autrice?". Beh, cosa ha voluto dire è evidente: raccontarci della crisi di un uomo da collocarsi in una crisi sociale più vasta blablabla. Ma non c'era un modo meno "vago", meno "leggero", di raccontarlo? Non si poteva dare un pò più di "sangue" al personaggio? Riassunto. Una star hollywoodiana ricca e famosa, Johnny Marco, trascina la sua esistenza da celebrità tra il set (dove è coccolato da una schiera di di assistenti ed agenti) e lussuosi alberghi dove praticamente dimora. Quando non lavora, non fa che bere per poi addormentarsi ubriaco davanti a degli spettacolini di lap dance che gli vengono allestiti direttamente in camera. E -va da sè- ogni notte una mignottella diversa gli si infila nel letto. Che vita dura eh? A un certo punto gli capita improvvisamente in albergo la figlia undicenne che dovrà restargli accanto per alcuni giorni. Questa convivenza lo condizionerà al punto che egli prenderà consapevolezza della propria vita sprecata. Anche perchè poi la bambina è molto sensibile, maturata precocemente di fronte alla condizione di figlia di due genitori che stanno per separarsi e soprattutto di un padre quasi totalmente assente. E' interessante assistere alla progressiva trasformazione di Johnny il quale arriva a rendersi conto (per usare le sue testuali dolorose parole finali) di "non essere più neppure una persona". La Coppola insiste a mostrarcelo di continuo alla guida della sua Ferrari, che lui conduce con la disinvoltura di chi guida un'utilitaria. Essa è dunque il simbolo massimo del suo status di privilegiato, ma anche una necessaria deriva di libera fisicità, il luogo-oggetto-animale domato attraverso cui esprime il proprio lato selvaggio e indipendente. Ciò su cui dissento nell'impostazione della Coppola è proprio nell'approccio col personaggio. Johnny, secondo la regista-sceneggiatrice, è un balordo dal volto umano, uno scriteriato, sì, ma vulnerabile. Io invece lo vedo come un povero idiota che quando ha un "buco nello stomaco" (anche di tipo sessuale) non esita a schioccare le dita per averlo subito davanti a sè; anche piccoli sfizi tipo un ricco gelato in camera nel cuore della notte, per tacere poi delle squinzie che gli fanno il balletto davanti, salvo poi sfancularlo quando abbandonano la stanza. C'è una sequenza nel film, tutto sommato breve, ma che è quella di cui in giro si parla di più. Cioè quando Johnny viene premiato a Milano durante la famosa cerimonia dei Telegatti. Come è noto, si tratta dell'apoteosi massima dell'autocelebrazione dello star system creato da Berlusconi. Di questa scena si è molto parlato in termini di parodìa o di sbeffeggiamento di un certo clima culturale italiano. Ebbene, la mia perplessità su questa sequenza si mantiene alta. Per esempio: perchè vi appare con una certa enfasi Maurizio Nichetti? Forse perchè i suoi film (se non vado errato) sono targati "Medusa"? Ma -soprattutto- se l'operazione critica fosse così "mordace" e sofisticata, avrebbe senso in un film distribuito dalla Medusa di Carlo Rossella? Prima di passare al cast, vorrei idealmente immortalare un fotogramma che ai più non dirà nulla, ma che chi segue un pò la scena rock non mancherà di incassare con curiosità: Johnny Marco che indossa la t-shirt nientemeno che di un gruppo punk leggendario come i Black Flag!! E adesso due parole sul cast, non senza aver prima dato conto di un paio di (tristi) camei durante l'incursione milanese cui prima accennavo. Detto di una demenziale Giorgia Surina che rifà tragicamente sè stessa, diciamo di quello scandalo nazionale che è Laura Chiatti. Costei è davvero una roba vergognosa. In quei 5 minuti scarsi in cui fa capolino, riesce a far precipitare la qualità della pellicola a livelli abissali. Negata. Non solo non sa recitare ma nemmeno sa muoversi, imbarazzante. Il protagonista, Stephen Dorff. Sinceramente, pur conoscendo il suo volto da anni, non l'ho mai apprezzato più di tanto. Qua pare decisamente in parte, al punto da far sospettare, (come dire?), che ci abbia messo un pò "del suo" nel mettere in scena il personaggio. La sua faccia, tra il narciso e il gigione, viene indagata nel dettaglio da numerosi primi piani. E chiudiamo con una perla assoluta. Da quanto detto finora si intuisce che il film non ha incontrato i miei favori. Eppure ne suggerisco la visione per la dolce presenza della piccola Elle Fanning: lei da sola (anzi lei sola) vale il biglietto. Un volto meraviglioso, una presenza sublime di bambina. Una rivelazione di piccola attrice. Quei suoi occhi che osservano in silenzio la disgregazione del padre, ci promettono per lei un futuro pieno di luce. Il cinema di Sofia Coppola non è progressivo nè progressista. Solo residui frammenti di punk-new wave maldestramente sovrapposti ad una parete di fredda eleganza estetica, ad un passo dall'esercizio di stile. La ragazza, infatti, è talmente "stilosa" che fa anche la stilista (di borse e scarpe) per Gucci. Come volevasi dimostrare.
Voto: 6
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