Regia di Ogawa Kazuya vedi scheda film
Un film che, in mancanza di idee brillanti, se ne va beatamente ramingo per i generi, attraverso le suggestioni etniche ed i diversi contesti religiosi e linguistici. Il sincretismo culturale di questa pellicola nippo-palestinese (in cui viene citato Mosè e si ode, in sottofondo, l’audio di un talk show della televisione italiana) si risolve in uno sbrigativo un po’ di tutto, un po’ di niente, tipico di chi ama brandire il facile entusiasmo di un universalismo superficiale e demagogico, senza aver la voglia di approfondire la complessità della questione. La passione, è vero, si può riversare, molto ingenuamente, anche in futilità, come fa il povero Elzober, per il quale l’acquisto di un’automobile rappresenta il sogno di tutta una vita. Si può diventare euforici e festeggiare in piazza quando quel sogno si avvera, e rovinarsi l’esistenza quando questo, subito dopo, sfuma a causa di un furto. Allo stesso modo, ci si può porre, di fronte al cinema, con il gusto un po’ infantile di chi vuole fare della gioia, del dolore e della miseria la sostanza semplice di una commedia in cui si sorride soprattutto di compassione. Questo, però, è un bel gioco che deve per forza durare poco: lo scherzo funziona solo fino a un certo punto, fino a che serve a preparare il terreno ad un pensiero più elevato, che redima la storia dal peccato originale della banalità. Qui, purtroppo, la strada è tutta in discesa, e la premessa debole, per quanto ancora dignitosa, conduce diritta ad un finale smorto e scomposto, in cui lo sfacelo è scritto nella sceneggiatura ed è coerentemente messo in pratica dalla regia. Dispiace che tutto naufraghi nell’incapacità di tirare i fili di un racconto che poteva anche contenere la sua piccola porzione di verità e bellezza, se solo fosse stato in grado di darsi una morale credibile; e, soprattutto, se fosse stato in grado di sviluppare, in senso letterario o filosofico, quell’acquarello naïf dell’allegria e della tristezza che, qua e là, si riesce gradevolmente a cogliere fra le righe. Purtroppo quella Subaru Legacy, piazzata al centro della storia come un macigno, è lo scoglio contro cui si frange la flebile onda della poesia; e davvero non si capisce del tutto il significato di quell’auto che scompare e ricompare, che diventa nera, poi rosa, poi di nuovo nera e poi di nuovo rosa, cambiando colore secondo i mutevoli umori della gente. Quella macchina, più che il simbolo di un concetto, sembra lo zimbello di un’umanità allo sbando, che non sa da dove venga né dove vada, ma in fondo non se ne cura più di tanto, perché, come si suol dire, tutto il mondo è paese, e l’importante è volersi bene. Un principio che, soprattutto nella tormentata terra d’Israele, è quanto mai lontano dalla realtà. Forse l’opera di Kazuya Ogawa voleva solo essere un inno alla pace travestito da bonaria provocazione: in tal caso, però, risulterebbe completamente fuori luogo quel lungo girovagare intorno ai vari aspetti del mercato illegale delle automobili, tra garage clandestini e rottamai di dubbia fama, ladri gentiluomini e ricettatrici in odore di stregoneria. A questo si aggiungano le maghe indovine, il tabù della verginità, i riti propiziatori della fecondità femminile e si otterrà un variopinto ritratto di un universo sospeso in favolistici luoghi comuni, che non conosce né passato, né futuro, e perciò se ne sta sospeso in un indefinito presente, sufficientemente soddisfatto di sé, ed incurante del fatto di non sapere da che parte andare.
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