Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Uscito di prigione, Tonny è solo, senza amici ed un padre che lo considera una nullità. Le vicissitudini quotidiane e problemi di memoria non lo fanno integrare nel mondo della malavita di Copenaghen, dove prima del carcere era un uomo rispettato. Tonny deve ritrovare gli equilibri, ma non è affatto semplice…
Una sorta di spin-off rispetto al precedente “Pusher – L’inizio”: Tonny (Mads Mikkelsen), nel primo film uscito di scena dopo la violenta lite con Frank, qui è il protagonista di un sequel più introspettivo e meno violento, arrivato 8 anni dopo il film d’esordio di Nicolas Winding Refn (e per fare cassa!). Molto più Freud e molto meno Tarantino (non si capisce il perché del sottotitolo infatti) con il pulp che rimane solo nei dialoghi, monocordi, quasi armonici tanto sono tarati su una metrica sempre uguale e reiterata.
La sceneggiatura di Refn stavolta tratteggia un personaggio che per lunghi tratti è al limite del penoso: tutti lo trattano male e gli si rivolgono come se fosse un ritardato (l’epiteto è il più gettonato dell’intera pellicola); Refn reitera così a lungo questo cliché da rendere inverosimile tutta l’architettura, tanto che ci si chiede (pur avendo visto il precedente “Pusher”) come mai Tonny rimanga nel giro nonostante sia considerato alla stessa stregua di un’ameba (il padre lo schifa, i colleghi lo insultano, la più grande puttana di Danimarca lo incastra e Tonny incassa senza colpo ferire, con la stessa faccia inebetita per 90 minuti di film). Da questo punto di vista il finale è troppo sbrigativo e nemmeno l’emblematica inquadratura conclusiva, col tatuaggio del protagonista in dettaglio, riesce a riequilibrare una pellicola che è un passo indietro rispetto all’epigono.
Mads Mikkelsen, ancora bravo, è tuttavia una spanna sotto rispetto ad altre prove, anche a causa del doppiaggio italiano di Andrea Ward meno consono rispetto al lavoro operato da Andrea Lavagnino nel primo capitolo.
Refn torna all’antico dopo aver sperimentato altre strade con poco successo al botteghino. Otto anni dopo il regista danese mette un mattoncino importante nella sua carriera di autore “underground”, mantenendo il suo stile indefesso, in cui il trait-d’union rimane l’uso quasi nullo dei cavalletti, per una macchina tarantolata anche laddove non occorrerebbe.
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