Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Avendo avuto la possibilità di visionare in sequenza i film che compongono la trilogia, esprimerò un’opinione complessiva ed unica (sperando di non mischiare le carte e le idee), nella convinzione che lo stesso Nicolas Winding Refn abbia voluto per primo, maturandone magari col tempo la consapevolezza , confezionare un’opera unica divisa in tre tranche (solo tre? Ci sarà mai la quarta?).
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Al primo “Pusher” non manca assolutamente nulla. Azzeccato dal primo fotogramma (esclusivamente sonoro in galoppante drumming) all’ultimo, riprendendo dal suo film precedente “Valhalla Rising” lo stile della suddivisione in capitoli (qui coincidenti con i giorni della settimana che copre lo spazio temporale della vicenda), sin dall’inizio Refn ci spiega di che pasta sono fatti i suoi pushers, la loro pochezza e miserabilità (valutazione non moralistica, s’intende), la pusillanimità e soprattutto la loro inadeguatezza a portare a compimento i progetti partoriti dalle loro stesse scelte. Il protagonista Frank e il co-protagonista Tonny già dalla loro prima uscita “d’affari” devono infatti cominciare ad arrampicarsi sugli specchi, costretti ad aggiustare una transazione alla bell’e meglio, e riuscendo comunque in questo primo caso a cavarsela in maniera soddisfacente. Ma ben presto le loro basse furbizie, e soprattutto quel non essere mai all’altezza della situazione che più li caratterizza, consentono al vortice di abbattersi sui due, e le sabbie mobili nelle quali iniziano ad affondare non daranno scampo ad entrambe, con Tonny che uscirà di scena per mano (violenta) del suo stesso socio e Frank che, rimasto colpevolmente solo in mezzo ad una notte cattiva ed ululante, “tradito” oltre che da se stesso anche dalla sua donna (quella Vic sulla quale contava di avere potere di vita e di morte), in uno splendido finale incompiuto, attraverso lo sguardo smarrito, disperato, arrabbiato di (un fantastico) Kim Bodnia, firmerà, probabilmente col sangue, il decreto del suo totale fallimento. Spietato, lucido, con la camera spesso a mano, nervosa in vago stile Dogma (siamo in Danimarca, non scordiamocelo), Refn precipita lo spettatore in un inferno che è prima di tutto nella testa dei suoi personaggi, e si riflette inevitabilmente nella loro vita. E’ l’Odissea del pesciolino che si crede e ragiona come uno squalo, ciecamente stupido, forte solo della sua inutile aggressività e violenza, inevitabilmente destinato alla pancia del pesce grosso….
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Al secondo “Pusher” manca forse un po’ della grinta e del mordente del primo. Sbarazzatosi (sappiamo, ma non sappiamo davvero come) di Frank, questa volta il regista affida a Mads Mikkelsen e al redivivo Tonny le redini della storia, introducendo una novità rispetto al primo film, e cioè quello che oggi alcuni politici nostrani potrebbero chiamare “quoziente familiare”. E’ infatti sul duplice rapporto padre-figlio che si costruisce il seguito della vicenda, avendo Tonny un padre (tarchiato boss della malavita nel ramo dei furti d’auto) ed essendo diventato inaspettatamente egli stesso padre. Con la solita leggerezza e pressapochezza con cui è solito affrontare le cose, infatti, Tonny ha incautamente ingravidato Charlotte, odiosa zoccola tossicodipendente, la quale ora rivendica il diritto a che sia anche il maschio responsabile del fatto ad occuparsi del piccolo. E qui Refn è veramente abile nello sviluppare la psicologia del personaggio, il quale all’inizio rimane totalmente indifferente alla notizia di avere un figlio (“Non mi somiglia per niente la bambina”, dice al primo incontro guardandola distrattamente, in mutande e in preda al consueto “hangover” senza neppure indovinarne il sesso), e affidando allo sguardo timido di Tonny/Mikkelsen il compito di far evolvere la sua coscienza di padre, scena dopo scena, incontro dopo incontro, umiliazione dopo umiliazione, tanto che lo spettatore potrà trovare un abisso tra l’inizio del film in cui Tonny si produce nell’ennesimo fiasco andando in bianco con due volonterose prostitute, e (di nuovo splendido e aperto alle interpretazioni) il finale con il protagonista in fuga da tutto e tutti verso l’ignoto, sul primo tram che passa, col suo bambino dormiente sulle ginocchia. In mezzo, ritroveremo per un istante Milo (Zlatko Buric), efficiente e vincente boss dello spaccio di origine balcanica, in qualche modo contraltare dell’ingenuità dei protagonisti del primo film, al quale, prima del ruolo di protagonista per il terzo episodio della serie, Refn affida per ora il compito di tenere il filo complessivo della vicenda (quella domanda sibillina e fugace rivolta a Tonny: “Allora, dov’è Frank? Non è in Svezia, vero?” è da considerarsi una piccola genialata), ed altri personaggi minori anch’essi caratterizzati all’insegna della debolezza e dell’inadeguatezza (l’amico Kurt detto “Il Figa” che getta in fretta una partita di droga nel cesso solo per aver sentito bussare alla porta: “Cazzo, pensavo fosse la polizia!”). Da rimarcare anche la freddezza della scena con cui Tonny apprende della morte della madre, per caso, da una voce di una sconosciuta al citofono, e l’enigmatica reazione dello stesso inserita nell’enigma con cui la coscienza del “quoziente familiare” matura in lui nel corso degli eventi, passando per lo status di orfano totale al quale perverrà volontariamente e di sua mano, con la consueta e apparentemente inconsapevole disperazione.
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Al terzo “Pusher” (come in ogni serie che si rispetti il livello decresce man mano che si prosegue…) manca principalmente un Tonny. O un Frank. Non che Zlatko Buric, col suo vocione dall’accento croato che su un parlare in lingua danese è tutto un programma (piccola nota a margine: ovviamente consigliata la visione in lingua originale, nonostante a Copenaghen e dintorni sembri davvero di sentir parlare dei veri cavernicoli!…) non sia all’altezza dei suoi colleghi, ma il “nuovo” Milo che qui gioca da protagonista, alle prese con le sue maldestre intenzioni culinarie, fa un po’ rimpiangere non solo i due protagonisti degli episodi precedenti, ma lo stesso Milo conosciuto fin qui. Forse lo scarto di “buonismo” (totalmente assente nel primo film) voluto per il finale del secondo episodio, o forse la necessità di dare anche al terzo protagonista un taglio psicologico che si avvicinasse ai primi due senza quindi tradire la sua concezione originale dei suoi pushers, fanno sì che l’imbolsito Milo, alla prima scena seduto ad una riunione di ex-tossicodipendenti in vena (si fa per dire) di chiudere i ponti con la droga, dallo spietato Mangiafuoco che era stato nei primi due episodi, diventi a sua volta una marionetta floscia, in balia di un’età che ineluttabilmente avanza e di nuove generazioni di criminali pronte a prenderne il posto. Se la debolezza di Frank e Tonny era una debolezza intrinseca, genetica, quella di Milo è la debolezza di chi è costretto dagli eventi a scendere a compromessi ai quali non è abituato né preparato, e la sua vulnerabilità non sarà data dall’ingenuità precipitosa come per i primi due protagonisti, ma saranno altri elementi, come l’incapacità a resistere alla tentazione di riprendere a fumare eroina, in preda a scatti di furia improvvisa (splendida la scena in cui, nel suo ristorante, non riesce a trattenersi dal massacrare a martellate l’incauto polacco di passaggio), quando non addirittura incapace di distinguere pasticche di extasi da comuni caramelle (lui, spacciatore di vecchio stampo alle prese con le droghe moderne…). A questa impossibilità di adeguarsi ai tempi che corrono e che lo percorrono, Milo, alle prese anche qui con il quoziente familiare (anche se in tono ridimensionato: il film si consuma tutto nello spazio di un giorno, quello del venticinquesimo compleanno della figlia Milena), reagisce come un orso ferito, capace delle peggiori brutture, fino all’epilogo splatter di disgustosa macelleria umana, sostenuto e coadiuvato dal vecchio Radovan, già suo gorilla ai tempi degli esordi, il quale, seppure redento e pulito, dedito anch’esso all’attività di placido ristoratore, è nobilmente pronto e soddisfatto nell’aiutare il vecchio amico se solo si tratta di scuoiare un albanese….A questa terza puntata, manca purtroppo anche la magia dell’ultima, fulminante inquadratura: dopo lo sguardo incredulo di Frank solo al crocevia della sua vita, dopo la nuca tatuata di Tonny che può finalmente reclamare con orgoglio il suo conquistato “Respect”, qui l’immobile Milo sull’orlo di una vuota e scassata piscina invernale, al di là di una forzata ricerca di significati sul vuoto nel quale il vecchio pusher tenta inutilmente di specchiarsi per comprendere se stesso e mettersi a nudo una volta compreso di essere giunto alla fine della sua carriera, non consente allo spettatore quel fugace volo di immaginazione tipico dei finali aperti, come lo erano stati i primi due, e da’ piuttosto l’impressione di una troncatura definitiva, quasi casuale, o forse l’unica possibile. Riflettendoci meglio e vista la chiusa del terzo episodio, non ci sarà mai un quarto “Pusher”. Nessun rimpianto, naturalmente. Piuttosto, almeno per me, un’ennesima e piacevole conferma dei molti talenti che arricchiscono la Danimarca del cinema.
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