Regia di Ivano De Matteo vedi scheda film
Una prostituta minorenne. Protagonista di un film sull’ipocrisia. O meglio, sull’imbarazzo che da essa deriva. Basta una singola, innocua presenza a seminare lo scompiglio in una famiglia borghese. Per spezzare l’incantesimo del buonismo, è sufficiente che la ragazzina russa che fa tanta pena e intenerisce, quando la si raccoglie ai bordi di una strada, si trasformi in una persona reale, dotata di pensieri e sentimenti. Nel momento in cui, in virtù della sua bellezza, quella creatura smette di essere inoffensiva, l’ordine naturale delle cose si sovverte: nella cerchia riservata della bella gente, che passa le vacanze in villa e nel tempo libero fa volontariato, la giovane Nadia diventa un'intrusa, che si mescola indebitamente alle persone che l’hanno accolta, occupandone gli spazi fisici ed affettivi. Le coppie entrano in crisi, i figli litigano con i genitori, e tutto ciò che la riguarda assume improvvisamente il carattere dell’indecenza e dell’inopportunità. Inaccettabile è che lei possa essere ammirata, amata e possa sognare un futuro con Giulio, che studia a Londra ed ha una fidanzata che lo aspetta all’Isola del Giglio. A lei non viene riconosciuta la dignità di poter aspirare a tanto; è solo un oggetto da soccorrere, quando ciò fa sentire nobili e meritevoli, o da sfruttare sessualmente, quando ciò serve a sfogare certi istinti. Indignarsi ed aiutare non basta, se non riusciamo a vedere, nell’altro, un nostro simile, sotto tutti i punti di vista. Agli occhi di Susanna, impegnata in un centro di accoglienza per le donne vittime di violenze, Nadia non dovrebbe mai uscire dal suo ruolo subalterno di ragazzina da salvare, che può solo obbedire e ringraziare. L’inferiorità è il marchio delle categorie più deboli. E il pregiudizio è radicato anche nel cuore di chi crede di fare del bene. La questione morale non c’entra, e il film di Ivano De Matteo evita intelligentemente di tirarla in ballo a sproposito, come troppo spesso accade. A fare difetto è, piuttosto, la cultura di un paese convinto che la civiltà sia una formula scritta nei codici, e da mettere in pratica nei tribunali. Il punto dolente è un’immatura visione del mondo, classista e/o razzista non per adesione ad un’ideologia, bensì per dissuetudine dalla riflessione critica. La società italiana è affezionata alle abitudini, consolidatesi in certezze e trasfigurate in valori, ma è orfana del dubbio; gli obiettivi sono tanto chiari quanto i mezzi per raggiungerli, ma il discorso non va oltre. Susanna, quando accoglie Nadia, non pensa alle conseguenze della sua iniziativa. Né si preoccupa di ciò che accadrà a Nadia quando deciderà di mandarla via. L’altro ci appartiene fintanto che ci fa comodo, dopodiché lo abbandoniamo: è il principio dell’usa e getta che, come ci rivela questa storia, si applica anche in contesti apparentemente distanti anni luce dal consumismo tipico del sesso mercenario. La cronaca recente, nel condannare il malcostume del nostro Paese, ha posto l’accento sull’edonismo, forse perché i suoi eccessi, riservati a pochi, sono tali da generare folklore. Il peccato originale è, però, invece, l’utilitarismo, diffuso in tutti gli ambienti e gli strati della popolazione, e quindi tale da ammorbare l’intero tessuto della società. La bella gente ce ne porge un esempio lampante: Nadia è sfruttata da tutti, in vario modo, come bambola sessuale o come domestica, come trofeo del proprio presunto altruismo o come frivola conquista amorosa. Subisce i desideri di tutti, da quello di essere generosi a quello di divertirsi. È il pupazzo che si adatta, a piacere, a tutti i momenti della vita, e in questo cinico gioco viene privato della sua identità. Per Nadia non c’è scampo: in qualunque luogo si trovi, in mezzo ai criminali o agli esponenti della Roma bene, non potrà mai essere uguale agli altri. Sarà sempre un essere umano da osservare, gestire, utilizzare. La schiavitù ha spesso catene invisibili, eppure tentacolari, che ti inseguono ovunque.
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