Regia di Pietro Marcello vedi scheda film
«Dopo il pasto viene il guasto, dopo il canto viene il pianto». Così Gaspare Invrea, con lo pseudonimo di Remigio Zena, scriveva nel romanzo La bocca del lupo (1890). Bocca nella quale finiscono i reietti della sua storia, costretti a battersi tra le avversità senza alcuna speranza di riscatto. Un romanzo verista dove la lingua, un misto tra italiano e genovese, si inerpica per i caruggi come la macchina da presa di Pietro Marcello. In questo film prodotto da Nicola Giuliano, Dario Zonta e Francesca Cima, e che proprio a quella prosa si ispira, il regista segue la voce narrante di Mary, attempata fanciulla del «braccio dei trans». Proprio dietro le sbarre conobbe il suo Gary Cooper, Vincenzo, siciliano di nascita e di fisionomia che in prigione ci è rimasto un po’ di più. Adesso è fuori, inghiottito nel grande nulla delle zero possibilità. Se Pier Paolo Pasolini fosse vivo, oggi il suo Stracci finirebbe al massimo nella casa del Grande Fratello. Mary e Vincenzo, più modestamente, ne sognano una in campagna, come in un western, appunto. La bocca del lupo è tecnicamente un documentario ma il genere, il formato, sono dettagli. Cinema puro punto e basta. Tra filmini d’inizio Novecento, tuffi dallo scoglio di Quarto, ipotetiche e utopistiche “ripartenze” (i luoghi del film sono gli stessi dai quali si cominciò a “fare” l’Italia) il napoletano Marcello racconta Genova come mai nessuno prima in questo modo. Parla, Via Del Campo. E parlano i vicoli intorno. Raccontano di prostitute e sbandati, vecchi marinai ubriachi e avanzi di galera. Senza nulla di letterario, se non appunto l’afflato naturalista di Zena; e invece con un incedere rispettoso di facce e luoghi, nonostante quegli stessi reticolati urbani testimonino di un determinismo sociale spietato e feroce. Il film è dedicato a coloro che negli anni hanno filmato e raccontato la città. Vedi Genova e poi muori. Giusto per ricordarlo, La bocca del lupo ha vinto il Torino Film Festival 2009.
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