Regia di Pietro Marcello vedi scheda film
Un’opera che alterna finzione e realtà, passato e presente, pubblico e privato con la meraviglia rispettosa dello straniero (il regista) che osserva e poi racconta con l’afflato della poesia e il giusto trasporto emotivo, la storia di una città e dei suoi diseredati utilizzando le voci di tre personaggi paritetici, Enzo, Mary e la città di Genova.
Credo che il modo migliore per “raccontare” La bocca del lupo (e le emozioni che suscita la sua visione) sia proprio quello di far parlare Danilo De Luise utilizzando la presentazione che ne fa sul semplice, ma significativo opuscolo che accompagna la programamzione in sala di questo straordinario documentario che giustamente sta mietendo consensi e premi nei vari festival ai quali è chiamato a partecipare:
“La bocca del lupo” è l’esito di un progetto ideato, promosso, coordinato e cofinanziato da “San Marcellino” (fondazione dei Gesuiti di Genova) che sviluppa e realizza servizi a favore delle persone senza dimora.
Nella nostra esperienza il lavoro sociale si compone anche di una dimensione culturale che è proposta di riflessione e cambiamento fatta alla comunità degli uomini e, quindi, alla città. Questo è tipico anche dell’apostolato sociale della Compagnia di Gesù, e San Marcellino è un’opera della Compagnia di Gesù.
Per questo motivo, un po’ di anni fa, impegnati nella realizzazione e la ristrutturazione della “Proposta Culturale”, ci siamo detti che tra tutte le forme di comunicazione per diffondere spunti di riflessione sui temi della sofferenza e dell’emarginazione, dei diritti e della dignità delle persone, sarebbe stato bello poter utilizzare lo strumento cinematografico, ma per farlo sentivamo il bisogno di trovare lo sguardo giusto.
Lo abbiamo trovato in Piero Marcello. Piero lo abbiamo incontrato per caso , un po’ di anni fa a Roma, in caso di un amico con cui stavamo preparando una conferenza. Ci parlò di un film sui treni espressi notturni che stava montando, “Il passaggio della linea”, poi vincitore del premio Pasinetti alla Mostra del Cinema di Venezia. Decidemmo di proiettarlo a Genova nell’ambito della nostra proposta culturale, perché ci colpì lo sguardo pulito e rispettoso riscontrato anche in un più acerbo lavoro precedente, “La baracca”.
Il merito della qualità cinematografica di quest’opera va interamente a Piero Marcello, a Sara Fgaier, che ha curato il montaggio, e ai loro collaboratori.
Nel maggio 2008 Piero si trasferì a Genova con i suoi collaboratori e iniziò la lavorazione coinvolgendo molti genovesi e non, compresi i cineamatori che hanno messo a disposizione il loro materiale (bellissimo). Durante questo periodo ebbe la fortuna di incontrare Enzo, e con lui Mary, che hanno dato un’impronta decisiva a questo lavoro.
E’ stata un’esperienza divertente ed entusiasmante, ma anche sofferta, difficile, faticosa. E’ come se il film si fosse girato attraverso Piero e gli altri. Non è stata solo una questione di talento tecnico. Ci sono romanzi, quadri, musiche e film che sono tecnicamente ineccepibili, ma non hanno un’anima. Questo film ce l’ha.
Occorre precisare che la Fondazione non ha voluto in alcun modo entrare nella proprietà del film e esercitare, quindi, diritti su eventuali premi o proventi derivanti dalla commercializzazione dell’opera. L’obiettivo che avevamo non era neppure avere visibilità mediatica, ma realizzare un’occasione potente per aiutarci a riflettere sul valore della persona, sulla sua dignità, sulle sue risorse e suoi diritti.
Credo che il lavoro di Piero e della sua troupe, renda giustizia al progetto e offra a tutti gli spettatori un’occasione che va ben oltre la visione di un bel film.
De Luise può stare tranquillo: l’obiettivo è stato pienamente raggiunto, non solo per la validità artistica del prodotto, ma proprio perché lo sguardo (e l’approccio) è quello giusto, “Pasoliniano” mi verrebbe da definirlo, totalmente privo di quella carità pelosa che avrebbe potuto rendere “patetico” (e sono gentile) il risultato.
Ho accettato la proposta dei gesuiti – ha dichiarato Marcello nel corso di un’intervista - perché aderiva al mio modo di osservare la realtà. Accostarmi agli “invisibili” (nulla è invisibile per chi vuol vedere) è nel mio DNA. Ma non solo. Napoli (il giovane, talentoso regista è appunto nativo di tale città) e Genova hanno diversi punti in comune; mio padre lavorava come marinaio, le sue storie sui porti, incluso quello del capoluogo ligure che rappresentava la sua città ideale, appartengono alla memoria della mia famiglia.
Perfetta identità di intenti dunque, e si avverte chiaramente la sintonia empatica attraverso la quale ci viene “rappresentata” con il giusto trasporto emotivo, la storia di una città e dei suoi diseredati, ai quali Piero Marcello ha saputo dare la parola e volto, rendendoli protagonisti, aiutandoli ad esprimersi, a farli sentire orgogliosi del loro tortuoso percorso sentimentale e di vita allo sbando che, pur dentro un orizzonte di sofferenza e tribolate lontananze, è pur sempre il commovente racconto di un amore, intenso, indomito, di quelli che nemmeno le ristrettezze, le miserie, i fallimenti, le mancanze e le privazioni (non solo economiche ma anche della libertà) riescono a domare o estinguere.
Perché La bocca del lupo (un’opera davvero ispirata che viaggia tra finzione e realtà, fra passato e presente, pubblico e privato con la meraviglia rispettosa - che è anche curiosità e voglia di conoscere - dell’estraneo che osserva e annota con l’afflato della poesia) è praticamente la rappresentazione (e il racconto) di tre personaggi paritetici: Enzo, Mary e la città di Genova.
Le immagini della Genova che fu (ma che esiste ancora, che la “rimessa a nuovo “ per le Colombiadi non ha del tutto estinto, ma ha solo reso ancor più precariamente marginale e solitaria, ancor più abbandonata alle sue miserie, e che si identifica ormai in quella dei Carruggi, del porto vecchio, di Via di Prè o di Via del Campo di deandreiana memoria) si intersecano e si fondono infatti (il montaggio, aiutato dalla forza emotiva di una inusuale voce narrante che sembra partire dalle radici più profonde dell’anima, è di forte presa e di raro impatto empatico) con la storia “della vita e dell’amore” di una coppia di homeless, ultimi fra gli ultimi, due umane presenze non prive di cadute e di omissioni, ma piene di sentimento e di voglia di “darsi” nel riscatto, che si confessano senza false reticenze o intollerabili pudori, descrivono il loro incontro in carcere (lei, una trans dedita alla prostituzione, proprio lì aveva conosciuto l’uomo, un altro recluso di lungo corso, e dentro le nude celle si erano innamorati), l’emozione dolorosa dell’aspettarsi durante i prolungati anni di detenzione dell’uomo, i progetti, le speranze, la gioia del di ritrovarsi e di vivere finalmente uniti (ed è tutt’altro che una favola), insieme ai tre cagnolini che sono davvero un poco quasi i loro figli, di nuovo ricongiunti intorno a un tavolo dopo tanta solitudine, a consumare una cena tenuta in caldo nell’attesa, con tanto di frasi d’amore scritte con calligrafia malferma su brandelli di carta sporca nel caos di due povere esistenze ma dai cuori traboccanti sentimento.
Con assoluto rispetto e naturalezza (la lunga sequenza del “racconto” è quasi interamente girata con la camera fissa sui due protagonisti seduti fianco a fianco), con sorvegliata partecipazione, (il regista non enfatizza mai né sottolinea: registra e trasmette), Marcello “pennella” intorno alle parole semplicemente utilizzando le sequenze di un passato lontano, messe a disposizione dai cineamatori, che hanno documentato le “trasformazioni” epocali di una città che ha preteso così di cambiare i connotati della Storia, dai tuffi dallo scoglio di Quarto di inizio novecento, alle demolizioni programmate per far posto alla modernità, mischiandole con le presenze quasi fantasmatiche dei derelitti emarginati che sbarcano il lunario e trascorrono serate vuote e senza senso trascinandosi dentro i residuali squallidi locali del porto pieni di “umana” resistenza alla condivisione, magari strascicandosi stancamente sulle gambe per esibirsi in una danza che è soprattutto un “appoggiarsi l’uno all’altra”, sulle note dissonanti di una canzone di Gainsbourg amplificate da uno scassato juke box che rende meno tristi e soli, fra un bicchiere di vino, una birra e una caduta.
Perché Piero Marcello è davvero anche pittore, e sa come pochi altri (proprio per la sua attitudine a dipingere), osservare il cinema partendo proprio dai colori e dalle forme. E nel suo documentario genovese, la mediazione “figurativa ” dello stile è sostenuta e resa ancor più “artisticamente pregnante”, grazie all’utilizzo fortemente caratterizzante, di un commento musicale che recupera gli autentici brani della tradizione più antica del barocco genovese, fino a diventare poesia allo stato puro.
A San Marcellino sono abituati ad incontrare la povera gente, “persone dalle vite difficili che rimangono sempre in ombra, coperte dalle grandi urgenze che caratterizzano in modo macroscopico tutte le apparenze”. Sono abituati a stare “dalla loro parte”, a parlarci insieme, a farsi carico dei dati allarmanti riguardanti la loro marginalità inascoltata (e che molti vorrebbero far rimanere “sotterranea”, seppellita nell’indifferenza e nella negazione), a cercare di modificare la discriminante considerazione sociale della “prosperosa” borghesia benpensante, a tentare di interpretare il disagio senza considerarlo un “inevitabile dato sociologico” con il quale purtroppo si deve fare i conti nel migliore dei casi con un sentimento di pietistica commiserazione, ma identificandolo semmai come una “ricchezza dell’anima” che lo trasporta in una dimensione di vita che diventa “partecipata condivisione” (e il regista è straordinario nel riuscire a mediare queste necessità trasferendole nel fertile terreno della “creazione artistica”, evitando ogni forma di bieco sentimentalismo, attraverso un’opera secca e dolorosa che ci fa penetrare quel mondo, ci costringe a “guardare” e a confrontarci con una realtà che davvero un poco ci spaventa perché mette in evidenza le nostre inadeguate - e forse in estinzione - disponibilità all’accoglienza). Ci fa diventare insomma, grazie al suo fare cinema, partecipi di quell’esperienza, di quelle vite (e Mary ed Enzo sono appunto due di quelle fra le tante che potremmo (ri)conoscere se solo fossimo disponibili a farlo, due persone che non hanno mai avuto sconti, né tantomeno concessioni o regali dal destino) e delle loro speranze di futuro, dei loro sogni e desideri semplici e concreti come una casetta con focolare sui monti “da cui si veda anche il mare”..
Genova è certamente più di altre una città piena di ferite, ma dalle molte risorse (come dimostra questa esperienza di solidarietà compartecipata), una metropoli ancora vitale non totalmente piegata alle inumane derive di troppe realtà del nord contaminate dallo xenofobo, disumano qualunquismo leghista (i “cinque giorni al Porto” rappresentano una delle prime esaltanti pagine di sciopero che hanno dato origine al riscatto operaio adesso di nuovo messo in discussione) che qui si estrinseca proprio “recuperando” e riproponendo immagini di un passato che si fonde in un presente che ha ancora echi di disumane disuguaglianze (posso testimoniare con esperienza diretta, che ancora nei primi anni ’80 nella “città vecchia” dove alle volte nemmeno arriva il sole, molte case regolarmente abitate erano ancora così fatiscenti e abbandonate da non avere nemmeno l’allacciamento alla corrente elettrica… e non parlo certo di preistoria!!!!!!!).
Ma queste “umiliate” realtà che ci circondano esistono ovunque, solo che è scomodo anche semplicemente parlarne… risulta allora ancor più meritorio il risultato che ci induce ad una riflessione altrimenti impossibile.
Concludo, riportando ancora alcune considerazioni di Alberto Remondini proprio sull’esperienza giornaliera di questa meritoria fondazione:
Quante storie abbiamo ascoltato! Storie che ci hanno fatto salire i brividi nella schiena e venire fuori fiumi di lacrime, di passione, di tenerezza, di sdegno e anche di rabbia. Uscendo dai tanti incontri nelle stanzette del nostro Centro di Ascolto, nelle accoglienze notturne, nei laboratori, sullo sfondo dei vicoli, delle stazioni, fra i muri della nostra chiesa, abbiamo desiderato che questo sentimenti potessero esplodere, che queste voci potessero essere gridate sui tetti, uscire dall’intimità e contaminare finalmente questo nostro mondo così avido, competitivo, eppure assetato di verità. Quella verità che sta fra la piccola gente che lotta.
La storia di Enzo, un ex galeotto con molti anni di carcere alle spalle, di Mary, prostituta e transessuale dal grande cuore, e del loro “volersi bene”, è una di queste, non dissimile da tante altre, e forse nemmeno la più drammatica: Piero Marcello ha compiuto il miracolo di farla esplodere, di farla diventare emblematica testimonianza di una condizione con un magnifico lavoro di regia (e di montaggio) che è anche una delicata ed etica indagine sociologica di raro impatto emotivo.
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