Regia di Werner Herzog vedi scheda film
“I don’t mean to alarm you, Miss Gudmundson, but it’s all a little strange. You see, he’s claiming his name is Farouk. He shouts about God and tosses oatmeal at us. It’s a little confusing. Can you help us out?”
“Well… I don’t know where to begin.”
Periferia di San Diego, un assolato giorno qualsiasi: la volante del detective Havenhurst (Willem Dafoe) viene spedita a gestire una situazione delicata; un uomo sulla trentina, un certo Brad Macallam (Michael Shannon), ha ucciso la madre (Grace Zabriskie) infilzandola con una spada e si è barricato nella casa di fronte allo scenario del matricidio, dicendo di avere due ostaggi con sé.
Brad grida frasi sconnesse, rifiuta i tentativi di mediazione e non prende in considerazione la resa pacifica. Nel frattempo, il mansueto Havenhurst approfondisce la questione approfittando della sopraggiunta Ingrid Gudmundson (Chloë Sevigny), la fidanzata di Brad. In seguito, anche Lee Meyers (Udo Kier), il maestro di teatro di Brad e Ingrid, fa capolino su una scena colma di SWAT, pronto a fornire il suo contributo alla ricostruzione del delirio psichico in cui la mente di Macallam è scivolata nell’ultimo anno.
Pare che tutto sia cominciato un anno prima, in Perù, dove Brad fu l’unico a salvarsi in un viaggio fra amici appassionati di rafting, tutti deceduti nel tentativo di domare le rapide di un fiume. Brad si tirò indietro all’ultimo, persuaso da una voce interiore.
Il rapporto con la madre apprensiva ed invadente e le prove della rappresentazione teatrale che lo vedeva protagonista, l’Orestea, vengono ripercorsi grazie alle testimonianze di Ingrid e Meyers. Brad ha trasposto nella vita reale il suo ruolo, quello di Oreste, assassino della propria madre…
“To me, the more fascinating element was this anonymous fear creeping up at you. It’s not a regular horror movie, with someone with a chainsaw. It’s more subtle because you can never name what makes it scary.” [Werner Herzog]
Scritto nel 1995 a quattro mani con Herbert Golder, un professore della Boston University appassionato di mitologia greca, “My Son, My Son, What Have Ye Done?” è stato realizzato solo nel 2009. La situazione è stata sbloccata quasi per caso da David Lynch (sì, quel David Lynch), che aveva da poco fondato una piccola casa di produzione.
Herbert Golder aveva incontrato più volte Mark Yavorsky, un attore teatrale che negli anni ‘70 uccise sua madre con una sciabola, consapevole di mettere in scena la tragedia greca dell’Orestea. Dopo otto anni di manicomio criminale, Yavorsky tornò in libertà, seppur in una roulotte a Riverside. Golder raccolse fiumi di materiale su quegli incontri, finendo poi istigato da Herzog a buttar giù una sceneggiatura.
Il bavarese Werner Herzog vive a Los Angeles ormai dal 1996 e molti dei suoi film più recenti sono in qualche modo firmati da una produzione statunitense e ricchi di nomi altisonanti nel cast; una bella bizzarria, per un regista quanto mai distante per stile, opera e contenuti dallo star system e da Hollywood. Per “My Son, My Son, What Have Ye Done?” Herzog non rinuncia ad una certa dose di coraggio, ad esempio filmando a mano con una telecamera digitale e conferendo un aspetto granuloso al suo lavoro. La ricostruzione tramite flashback del delirio estatico di un protagonista deluso da un mondo quotidiano ripetitivo, artificioso e privo di epica appare persino interessante, ma la struttura narrativa stanca presto; funziona all’inizio, quando effettivamente non si capisce dove “My Son, My Son, What Have Ye Done?” possa andare a parare, diventando però prevedibile in corsa, chiudendo il cerchio in maniera piuttosto banale.
Non è chiaro se Herzog abbia cercato di lasciare comunque la sua firma in calce d’opera o se si sia ritrovato a scimmiottare se stesso, in un tentativo di addolcire la sua poetica filmica per un pubblico diverso. Fatto sta che tutta una serie di elementi richiama i suoi lavori precedenti in maniera quantomeno posticcia: imbastire alcune scene di fenicotteri e struzzi non ha l’effetto potente del pollo danzante di “Stroszek”, così come ambientare un flashback nei pressi del fiume Urubamba in Perù (stesso scenario dei suoi folli protagonisti kinskiani, da Aguirre a Fitzcarraldo) ha il sapore della forzata ripetizione e dell’autocitazione.
Herzog cerca comunque di osare con una colonna sonora più “aggressiva” e protagonista che mai, curata dall’olandese Ernst Reijseger come in “The Wild Blue Yonder”. Le musiche, inoltre, conducono e sospendono un paio di assurde scene di “freezing”, in cui i personaggi si bloccano, quasi a comporre un’istantanea, un quadretto audiovisivo. Non uno dei suoi migliori esperimenti, a dirla tutta.
Per quanto riguarda gli attori, degno di nota un Michael Shannon a suo agio in ruoli di questo tipo, ma totalmente ininfluenti tutti gli altri, da Dafoe a Kier, castrati da una recitazione innaturale, compassata, totalmente funzionale ai dialoghi inverosimili. “My Son, My Son, What Have Ye Done?” è un film passabile e non privo di spunti interessanti, ma a mio parere non merita di essere nominato in compagnia dei capolavori di Herzog.
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