Regia di Werner Herzog vedi scheda film
Il film è la lucida rappresentazione di un delitto un po’ folle che ha però bagliori di razionale consapevolezza, realizzata ricorrendo a frequenti squarci di poesia fra l’onirico e il surreale di assonanza lynchana, dove le tensioni e le paure tutte interiori trovano fertile terreno in un’’angosciante, malsana atmosfera che permea tutta l’opera.
La sceneggiatura risale alla fine degli anni Novanta (il film è rimasto solo un progetto per ben 14 anni) ed è stata scritta insieme a Herbert Golden, un professore di lettere classiche che ha tradotto in inglese le tragedie di Sofocle che mi ha fatto anche da assistente. Golder è sempre stato affascinato dalla messa in scena delle tragedie greche ed è lui che si è imbattuto nella storia reale di questo bravo attore, Mark Yavorsky, che aveva interpretato l’”Orestiade” in un teatro di San Diego e che finì per uccidere sua madre esattamente come Oreste nella tragedia.
Anche se gran parte della vicenda è liberamente ispirata alla vita di Yavorsky, molti dialoghi da me usati sono citazioni precise degli interrogatori registrati dalla polizia (…)
E questa volta – molto più di quello che di solito mi accade - è stato molto importante il lavoro relativo alla colonna sonora, visto che a volte i personaggi restano immobili fino alla fine di una canzone (all’inizio e alla fine del film abbiamo inserito un pezzo della cantante messicana Chavela Vargas, poi un brano bellissimo di Caetano Veloso – “Cu-cu-ru-cu-cu Paloma” - già usato da Almodóvar, e poi uno del cantante texano della seconda metà degli anni Venti, George Washington Phillips). Questo ha a che fare proprio con il mio lavoro con il musicista Ernst Reijseger. Insieme abbiamo inaugurato un nuovo livello di collaborazione, ed è anche per questo che nel film c’è più musica di quanta ne abbia mai usata in passato, che consente di creare una dinamica molto strana tra i diversi momenti (Werner Herzog).
Io credo che sarebbe stato più produttivo (anche per lo spettatore) che la distribuzione di questa pellicola fosse avvenuta in contemporanea con Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans perché pur divergendo nei risultati pratici (e nelle mie personali valutazioni anche di gradimento), rappresentano insieme un dittico certamente di differente impatto e valore, ma per più di un verso assolutamente “complementare” e abbastanza inscindibile. E’ per esempio analogo il “punto dell’osservazione”, e uniforme il giudizio “critico” molto severo sugli Stati Uniti d’America che ne emerge, ma che solo dopo aver visionato My Son, My Son, What Have Ye Done- (storia particolarmente angosciante e spaventosa in cui non si sa mai da dove esattamente provenga l’aspetto horror che la pervade tutta) si riesce a comprendere fino in fondo, proprio per la nebulosità un pò confusa della precedente opera che – a mio avviso - rimane una specie di compromesso non perfettamente andato a buon fine fra la “commerciabilità” del prodotto richiesto dalla produzione e “l’autorialità “ del regista che “traspare” troppo poco e solo in alcuni tratti marginali).
Entrambe le pellicole, sono infatti incentrate – ciascuna alla sua maniera – su una specie di “deriva” delle coscienze, dei valori e dei rapporti che prende forma partendo da un’evidenza (che è anche convinzione) - frutto di una spietata analisi visionaria e a tratti surreale delle cose – che è quella dell’inabissamento forse irreversibile dell’etica morale di una Nazione e del suo popolo nella fuga costante dalla razionalità “pensante” che spinge a trovare sfogo alle proprie frustrazioni tentando sbocchi alternativi in altre aberranti dimensioni. Una constatazione che in My Son, My Son, What Have Ye Done si trasforma “herzoghianamente”, in un viaggio allucinato fra le rovine mentali dell’America che si concretizza - “simbolicamente” - nel travaglio interiore (e nel successivo, definitivo distacco dal mondo del reale), determinato dalla rottura violenta di un vincolo castrante e talmente opprimente da risultare quasi asfissiante, come quello che lega Brand alla sua genitrice (che si riverbera poi, sia pure a corrente inversa, nel legame con Ingrid), il tutto segnato da un’ironia sottilmente crudele che rende ancor più disturbante nello spettatore la percezione di quella deriva mentale spinta alle estreme conseguenze.
La vendetta (che rappresenta la definitiva cesura traumatica del cordone ombelicale) segue così un processo espositivo che potremmo definire “di drammatizzazione del quotidiano”, non solo per la maniera in cui ci viene prospettata, ma anche per i riferimenti a un’opera teatrale che avrà un ruolo fondamentale nella storia, che diventa a sua volta l’elemento sconquassante (quasi catartico) che spezza gli equilibri e che trasforma all’improvviso una provincia borghese, apparentemente monotona e paciosa come quella che ci viene qui rappresentata, in un luogo infido ed insicuro in cui si compie una tragedia che si carica per altro di annotazioni inquietanti dovute alle “figure”che si ammassano sullo sfondo (dai fenicotteri, all’allevamento di struzzi dello zio): tutt’altro che dettagli esteriori, ma “segnali” spesso presenti nel cinema di Herzog, che contribuiscono a “connotare” un percorso e che consentono al regista di “ritrovare” (ed anche rinverdire) molti dei temi a lui più congeniali e cari, a partire proprio dalla rappresentazione di un’esistenza pacifica e normale, ma capace di nascondere qualcosa di davvero sconvolgente che emerge repentino all’improvviso a “turbare la quiete fittizia delle cose” (e non a caso Lynch risulta fra i produttori esecutivi della pellicola) che lo fanno ritornare quel grande e inimitabile cantore delle diversità che conoscevamo.
Scandagliando la psiche contorta di un uomo e le sue ossessioni, con questa pellicola raggelata e circolare, dal ritmo sospeso e i colori pastello tipici delle case-prigioni delle periferie metropolitane prive di anima e di “dignità”, Herzog punta così il suo sguardo sulle alienazioni dell’America contemporanea alla ricerca delle radici del “malessere” sociale ed esistenziale che le ha generate.
Il protagonista è Brand, giovane attore impegnato a teatro con l’Orestea di Eschilo, che finirà per trasporre nella realtà quanto il suo personaggio vive sulla scena. Non c’è un punto di vista morale o la ricerca di una verità assoluta da privilegiare però: tutto si mette in moto dopo l’omicidio, che è poi l’origine stessa della storia che si ispirata a quella reale di Mark Yavorsky[1], ma che assume nella traslazione cinematografica (la costruzione è fatta di “tasselli” che lentamente si ricompongono per formare solo alla fine un insieme ben definito e chiaro) una consistenza molto più metaforica, sintetizzata nell’immagine alienante della villa circondata dalla polizia (esattamente come il tempio in cui Oreste è assediato dalle Erinni), dove l’uomo, minacciando di tenere prigionieri degli ostaggi, da carnefice oggettivo, si trasforma nella vittima perfetta delle proprie ossessioni che lo stanno divorando.
Dai racconti alla polizia di amici, vicini e conoscenti, dai ricordi della sua ragazza, emerge così il quadro psicologico di un uomo già da tempo in persistente difficoltà mentale, turbato dal rapporto con una madre soffocante e che deve fare i conti con uno zio fascistoide che alleva struzzi e una fidanzata che per quanto si impegni, non è ormai più in grado di aiutarlo. La morte dei suoi compagni d’avventura durante un viaggio ecologico e “naturista” in Perù, è stata probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso, quella che ha mandato definitivamente in tilt la sua psiche, tanto è riuscita a disorganizzare un equilibrio ormai smarrito in una specie di limbo della percezione che lui ha cercato inutilmente di sublimare col teatro. E la scena del delitto dove – regista di se stesso - il ragazzo finisce per trasferire nella realtà la tragedia greca che stava rappresentando e nella quale si è progressivamente identificato, diventa di conseguenza e inevitabilmente proprio quell’assolata abitazione borghese della California che ci è apparsa davanti fin dalle prime sequenze con la sua rassicurante normalità di facciata.
E’ comunque indubbio che il gioco dei rimandi tra le due dimensioni (che è poi la storia di un mito antico e di una moderna follia) trova proprio nella sovrapposizione con la tragedia di Eschilo il suo punto focale, e un parallelo stimolante e certo per la progressiva traslazione identificativa del ragazzo nelle azioni del personaggio che è chiamato a incarnare sul palcoscenico, ma soprattutto per la ribellione a una scomoda e disturbante realtà che lo condiziona ormai da troppo tempo e che proprio da lì si mette in movimento. L’importanza della tragedia greca, come ben sappiamo, risiede però soprattutto nel concetto di catarsi, oltre che nell’individuazione di un capro espiatorio necessario per ottenere proprio quella (im)possibile purificazione che si sta cercando. Nel mito dunque, il gesto matricida di Oreste (che sarà ripreso anche da Sofocle con l’Elettra, e in tempi più recenti dalla rivisitazione sartriana de Le mosche) racchiude e condensa al suo interno una serie di colpe, tra cui – non ultima - anche quella infame di Clitennestra - che sarà alla fine proprio la giustiziata – impura moglie fedifraga macchiatasi del sangue di Agamennone, mentre invece il desiderio vendicativo di Brad scaturisce soprattutto da una prevaricante oppressione psicologica molto condizionante che lo rende succube della genitrice (la figura del padre resta infatti totalmente assente, come del resto negli accadimenti del reale) [2] che si trasforma in uno sdoppiamento schizofrenico dall’esito ferale, il che alla fine fa anche una sostanziale differenza di valutazione.
Il film è dunque una discesa nella distorsione mentale, la lucida rappresentazione di un delitto un po’ folle che ha però bagliori di estrema e razionale consapevolezza, realizzata ricorrendo a frequenti squarci di poesia fra l’onirico e il surreale dove le tensioni e le paure sono tutte interiori, create soprattutto da quell’angosciante, malsana atmosfera che si percepisce, amplificata dall’eco un pò lynchiano che si porta dietro, e per quel forte senso di smarrimento fra empatia e straniamento che rende ancor più spaventoso quel distacco progressivo e fatale dalla realtà che nasce dall’impatto con un mondo ostile che condensa oscure mitologie e pulsioni incontrollabili (e come sempre Herzog è straordinario nel rappresentare gli eccessi delle follie “coscienti” dei suoi personaggi alla ricerca anche simbolica di un “mitico Eldorado”, sia che si tratti di montagne remote come quelle del Perù, dell’Amazzonia o dei Balcani, dei recessi ancestrali e disturbati della mente, oppure delle assolate costruzioni della California, o di qualunque altra regione o città dell’epoca moderna).
Un plauso particolare per la definizione inquietante del personaggio a lui affidato, lo dobbiamo senz’altro tributare alla straordinaria performance di Michael Shannon, impenetrabile schizoide incapace di decodificare correttamente il proprio presente (deve solo stare attento a non restare troppo a lungo imprigionato nel ruolo unidimensionale dell’alienato in cui oggettivamente eccelle, che è poi quello che prioritariamente sembra gli venga offerto dopo Revolutionary Road, ma che potrebbe finire per soffocarlo come è accaduto ad altri suoi illustri predecessori).
Gli sono accanto, ottimi come sempre, Willem Dafoe. Chloë Sevigny, Brad Dourif, Udo Kier, l’allucinata, lynchana Grace Zabriskie e Michael Peña, il che conferma la cura meticolosa delle scelte fatte dal regista: “la recitazione degli attori deve rientrare all’interno di una tessitura più generale, è un lavoro di squadra: ognuno è una parte di un insieme che deve funzionare come una formula chimica, altrimenti sono grossi guai. Non si può pensare al casting come ad attori separati gli uni dagli altri che lavorano ognuno per se stesso, ma come a un insieme unico e inscindibile che si muove sulla stessa lunghezza d’onda”(Werner Herzog).
[1] Il 10 giugno 1979 Mark Yavorsky di 34 anni, pugnalò a morte con una sciabola d’epoca nel salotto della casa di un vicino dove la donna aveva cercato rifugio per tentare di sfuggire alla furia omicida del figlio e senza una specifica ragione, se non l’odio profondo che nutriva nei suoi confronti per le “prevaricazioni subite”, la madre, Maria Wathan di 65 anni”.In a neighbor's living room, where she had sought refuge, Yavorsky stabbed her to death with a 3-foot antique saber.
Werner Herzog ha realmente conosciuto l'omicida Mark Yavorsky, rimesso in libertà vigilata dopo aver trascorso otto anni in un manicomio criminale di massima sicurezza in Messico. Il regista l'ha incontrato proprio durante la lavorazione di My Son, My Son, What Have Ye Done, ed è stato un incontro davvero singolare e un po’ scioccante: quando è entrato nella roulotte dove abitava l’uomo, Herzog ha subito notato al muro, situato al centro di una specie di altarino con le candele accese intorno, un poster del suo film Aguirre, furore di Dio, cosa che lo ha alquanto turbato.
[2] “ha scritto molto su suo padre che era morto, che non aveva mai conosciuto” disse dello studente Mark Yavorsky ispiratore della storia il 12 giugno del 1979 all’indomani della truce esecuzione, un Professore che lo conosceva bene: Dick Pavone)
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