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Felon - Il colpevole

Regia di Ric Roman Waugh vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Felon - Il colpevole

di Marcello del Campo
6 stelle

Onesta incursione di un ex stuntman nel ‘genere carcerario’. La lezione di Sam Fuller, ‘andare al cuore dello spettatore’, è servita, un po’ meno lo stile che oscilla tra modello televisivo e abuso di camera a mano. Difetti che nulla tolgono a un b-movie-vintage riuscito.

 

Non si può fare lo stuntman a vita, questo ha capito Ric Roman Waugh, quarantaduenne losangelino che dopo un’onorata carriera di capitomboli (Essi vivono, Tango & Cash, Total Recall, Last Action Hero, Fuori in sessanta secondi, giusto per citarne alcuni), decide nel 2001, dopo The One, che non ha più l’età per rischiare di farsi male. Ric è il classico tuttofare hollywoodiano, oltre a stunt è stato aiuto regista, tecnico delle luci e ha, nel tempo libero, scritto qualche sceneggiatura.

Nel 1996 ha già provato a dirigere un film in tandem con Alan Smithee, Exit, un action movie interpretato da un drappello di carneadi, un disastro, per fortuna a low budget. Anche In The Shadows del 2001 (passato in Italia come The Specialist) è less than zero, ma questa volta ha scelto Matthew Modine, James Caan, Cuba Gooding jr, ma il thriller autoreferenziale (la storia di un killer pagato per uccidere uno stunt) non promette niente di roseo per l’avvenire di Ric.

Nel 2008 riprova con uno script, Felon, e dirige il film omonimo: il tuttofare fa centro.

In Italia, nemmeno a parlarne, il film passa inosservato: un altro film carcerario? Volete che interessi a qualcuno il film di Ric Roman Waugh quando la critica è andata in brodo di giuggiole per Un Prophéte e Mauro Gervasini su FilmTv scriveva una “filmografia ragionata e faziosa” (direi “faziosa” perché di “ragionato” c’era ben poco in una filmografia-carceraria in cui non erano citati Forza bruta di Dassin, Sono un evaso di LeRoy e Yol di Güney)? 

Felon è un film che a recensirlo ci fai una brutta figura, meglio aspettare che Ric mostri cosa sa fare con Bobby Martinez, ancora in produzione (la biografia del campione di surfer).    

Felon denuncia dal titolo il cotè criminale e si autoiscrive nel ‘genere carcerario’ con la fretta di andare al sodo, come nei bei b-movie (tali erano considerati i film di Fuller e Siegel prima che la critica a posteriori li eleggesse a capolavori, con grande sdegno dei titolari): il tempo che separa Wade Porter e la sua donna Laura (Stephen Dorff e Marisol Nichols) dalla tragedia dura dieci minuti. Subito dopo una colluttazione tra l’uomo e un ladro d’appartamento, Wade è nell’inferno del Carcere di massima sicurezza.

Omicidio preterintenzionale o omicidio colposo? Wade ha ucciso il ladro fuori, nel giardino della casa non ancora di proprietà della coppia; c’era qualche rata da pagare e poi lui e Laura si sarebbero sposati.

L’immersione nel ‘nuovo mondo’ è caratterizzata dagli stereotipi del ‘genere’ con una capacità di sintesi ignota alle barocche lungaggini di Jacques Audiard: ispezione corporale, doccia, segregazione, battesimo di legnate dalla gang degli Ariani, ‘o con noi o sei fottuto’.

La lezione di Sam Fuller, ‘andare al cuore dello spettatore’, è servita, un po’ meno lo stile che oscilla tra modello televisivo e abuso di camera a mano e montaggio a schiaffo. Ma sono difetti che non ti infastidiscono quanto le lezioni di sociologia della segregazione inflitte da registi politicamente corretti sulla fauna carceraria.

Ric deve farsi le ossa, non puoi chiedergli di fare Undisputed al primo colpo.

Il sogno americano è andato a farsi fottere, Wade ha patteggiato e tra tre mesi potrebbe ritornare un uomo libero. Sono tanti tre mesi in un penitenziario presidiato dal sadico tenente Jackson (Harold Perrinau), nero di colore e di carattere, un ossesso tra gli ossessi, che si trastulla come Caligola a guardare dalla grata le mortali tenzoni che si scatenano (che lui scatena) nello spazio denominato “Administrative Segregation Unit” tra opposte bande di incalliti delinquenti.

La detenzione di Wade è per forza di cose destinata a essere più lunga: se non accetta di farsi fare a pezzi da Viper nel recinto, deve spaccare il cranio al farabutto, altrimenti sarà quello a tagliargli la gola o qualche altro muscoloso tatuato che si trova lì e ci resterà fino alla fine dei suoi giorni e non ha nulla da perdere.

Laura vende la casa, Wade ha un nuovo compagno di cella, si chiama John Smith ma non è un ‘un signor Nessuno’.

Al suo arrivo cala il silenzio, hanno tutti paura dell’uomo che ha sterminato uno a uno tutti membri di un’intera generazione di una famiglia per vendicare l’uccisione della donna amata e della figlioletta violentata e fatta a pezzi da uno solo di loro; John Smith ha agito di conseguenza, cattivo sangue non mente, meglio togliere dalla faccia della terra tutti, per non sbagliare.

John Smith è un personaggio difficile da dimenticare: Val Kilmer ingrassato di una ventina di chili, con gli occhiali e la folta barba dà corpo all’uomo che il tenente Jackson vuole morto: filosofo esistenzialista senza studi alle spalle, John Smith rappresenta agli occhi del giovane Wade il Maestro, ‘l’uomo che apre la via’, la chiave segreta per uscire indenni dai mortali corpo a corpo tra i bruti nell’arena; se perdi, Jackson ti uccide dall’alto del panoptycon con un fucile di precisione.

Quando la tua vita è definita da una singola azione, tu cambi l’intera concezione del tempo” spiega John Smith a Wade, come dire che il mondo esterno non esiste più, che il tempo si è contratto, da tempo liberato è diventato tempo della necessità di adeguare l’azione umana alla giusta misura in cui a ogni azione deve corrispondere una reazione.

Per le complicate connessioni della mente, la figura e le parole misurate di John Smith hanno una rilevanza, pure in un film senza grandi pretese da parte del regista ma denso di filosofemi à apprendre per lo spettatore sensibile, pari ai capitoli di apertura di Ghost Dog, segnati dall’Arte della Guerra.

Non racconterò la fine di questo onesto Felon, film ingiustamente sottovalutato.  Dico solo che spesso c’è più verità nell’ovvietà che in tanti blockbuster fabbricati per ottenere premi e consensi.

 

 

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