Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
Voce di un detrattore di Ozpetek: Mine vaganti è un film inessenziale, superfluo, che si ferma alla superficie. Alla forma, a quella che raccatta consensi e "riscalda i cuori" degli uomini puri. Una storiella esile esile al servizio della massa: un gay vuole fare coming out, il fratello gay lo precede, e lui non può dichiararsi per non mettere a rischio ancora di più la salute del padre, che in reazione alla notizia del figlio ha avuto un infarto. "Non si può dire, siamo nel 2010, non più nel 2000" (???), e mentre si cerca di capire davvero questa perla tanto fondamentale, ci si ferma inebetiti di fronte alla vuotezza sconcertante del film di Ozpetek (o "dei" film di Ozpetek), perché il regista di origine turca ha l'idea di fare cinema, mentre i suoi pastrocchi flagellano il vero Cinema, quello dei sentimenti che non si slanciano ricattatori a cercare la facile tenerezza.
Ma sembra proprio che Ozpetek non ne abbia mai visto, di cinema serio (o di commedie "serie"), perché il suo Mine vaganti scalfisce la carineria e inabissa l'umore, sconcertando più che divertendo. Il ritmo da commedia pensa di divertire ma sprofonda nel macchiettismo più disumano, i vari attori cercano di cavarsela quel minimo sindacale per poter non rovinarsi totalmente la reputazione, e le digressioni oniriche (o gastronomiche, oh, quanto si possono odiare le digressioni gastronomiche di Ozpetek?) occupano il tempo che trovano spingendo l'acceleratore sul melenso involontario. E mentre prosegue la favoletta dell'eroe sincero e del mondo cattivo, fatta eccezione per certuni più buoni di altri, che sanno cos'è l'amore sincero, e sanno anche che "solo gli amori impossibili durano in eterno" (la nonnina, forse più odiosa del padre), Ozpetek si appresta a "bisessualizzare" i gusti del protagonista Scamarcio rendendolo gay (uuuh, Scamarcio gay!) ma anche attratto da una donna, ché Scamarcio del tutto gay sarebbe uno spreco, e un rischio per l'audience. Intanto cerca anche di fare i sacrosanti riferimenti al passato della nonnina, che ha tentato il suicidio ma è stata fermata (anche lei un amore impossibile), e infila anche alcuni amici un po' effeminati del protagonista per gettare tutto nella rassicurante commedia degli equivoci e per non rischiare di essere troppo serio (e tirando per le lunghe una brodaglia già di per sé indigesta). E non ci si arrischi a parlare di psicologie, perché i personaggi di Ozpetek non sono in grado di nascondere qualcosa, né sembrano nelle possibilità di provare sentimenti realmente contrastanti: sono sempre chiari come il sole, ché altrimenti non desterebbero simile simpatia (o simile antipatia, se si vuole).
Atteggiamenti ritriti come l'ipocrisia e la vergogna piccolo-borghese, presi in questo modo, possono funzionare solo per qualche discorso edificante sulle ingiustizie del mondo e su come quest'ultimo castri la libertà affettiva degli esseri umani, ma un reale motore per la comprensione dell'ambiguità del sentimento o della problematicità delle emozioni, quello non esiste, Ozpetek se lo scorda fra una musichetta turca (o italiana) ben ritmata e un finale che potrebbe risollevare il destino di un'ora e quaranta sprecata e che non riesce a far nulla causa totale mancanza di consapevolezza registica e l'ausilio di un sorriso finale che Antoine Doinel o la ragazzina de La dolce vita avevano già proposto e per cui ora possono solo rigirarsi nella tomba, non nella tomba fisica, ma nella tomba della memoria del cinema, e di quello che esso può fare. Una settima arte che Ozpetek incenerisce gigioneggiando nel ridicolo e atteggiandosi da maestro: e il successo di pubblico non lo smentisce.
Ferocemente inutile.
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