Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
La commedia ha i suoi ritmi, le sue regole, i suoi dogma da rispettare. E la commedia può prestarsi a contaminazioni e ad interpretazione che talora possono toccare vette raramente visitate. Nel cinema italiano degli ultimi anni, un film come Mine vaganti è innanzitutto un film stilisticamente nuovo. Partendo dalla grande Famiglia di Ettore Scola del 1986, i pochi autori che hanno raccontato l’istituto familiare nelle cadenze della (post)commedia (all’italiana) sono il vecchio e sempre buono Mario Monicelli (nel sottovalutatissimo Panni sporchi), Cristina Comencini (Liberate i pesci su tutti), in un certo modo Francesca Archibugi (Mignon è partita) e pochi altri. La famiglia è una di quelle tappe che in un percorso artistico, in un modo o nell’altro, si ritagliano un proprio posto, perché c’è sempre qualcosa da raccontare su una famiglia. Se poi viene presa in esame la particolarissima famiglia dei pastai pugliesi Cantone la tappa è quasi obbligata.
Vale la pena ricordare per sommi capi la storia: c’è il gay Tommaso che torna all’ovile leccese per firmare un contratto di fusione. I suoi parenti sono convinti che si sia laureato in economia e commercio (in realtà è un letterato e vorrebbe pubblicare un romanzo) e non hanno il minimo sospetto sulla sua virilità. Si dà il caso che anche il di lui fratello, Antonio, sia dell’altra sponda ed ha la brillante idea di rivelarlo a cena con i futuri soci. Quasi infarto di papà Vincenzo, sdegno di mamma Stefania; nonna sapeva tutto. Meno male che c’è Tommaso che porterà lontano il cognome. Cavoli amari, se poi ci si mette la bella e frigida rampolla dei futuri soci. L’arrivo degli amici (gay) romani aiuterà a mettere ordine.
Le mine vaganti sono proprio loro, i personaggi di casa Cantone coattamente normalizzati per l’onore e il buon nome della famiglia. “Normalità, che brutta parola”, commenta la zia Luciana, che vive nel suo mondo e guai ad entrarci. Ma allora le convenzioni, specie in un certo sud ancora bigotto e legato a logore tradizioni, sono più forti della propria personalità? Sta qua la morale della favola, portata in dote dalla saggia nonna: “Non farti mai dire dagli altri chi devi amare, e chi devi odiare. Sbaglia per conto tuo, sempre”. Su una sceneggiatura di ferro scritta assieme a Ivan Cotroneo, Ferzan Ozpetek da una svolta radicale alla sua carriera: se si escludono certi intermezzi de Le fate ignoranti e Saturno contro (perlopiù affidati a commedianti ed interpreti brillanti), questa sua prima commedia (se consideriamo i due film appena citati, il rapporto dramma-commedia era 80-20; qui il rapporto si è ribaltato) riesce in quell’operazione chimerica che ha visto il fallimento di molti autori, ossia la calibrazione perfetta fra lacrime e sorrisi, dolore e sapore, gioia ed inquietudine. Soprattutto mette in discussione il carattere principale del suo cinema, l’omosessualità, per la prima volta ritratta senza angosce (in ogni suo film, Ozpetek rappresenta il gay nella fase del dolore, si pensi al Pierfrancesco Favino di Saturno contro, a Massimo Girotti ne La finestra di fronte, Gabriel Garko ne Le fate ignoranti e Erika Blanc in Cuore sacro), ma solo divorato dal dubbio dell’outing o meno – che poi in realtà è il dubbio dell’essere o meno. Per di più, entrano in gioco quattro checche che sembrano uscite da La cage aux folles: sarebbero risultate barbare ed inammissibili due o tre film fa. Ozpetek, poi, si allontana dall’amatissima (ed inflazionata) Roma e scende nella Puglia barocca, illuminata dalla meravigliosa fotografia di Maurizio Calvesi con colore, gusto e passione. Proprio Lecce nella sua dimensione cittadina è protagonista di tre scene da antologia: Tommaso al bar principale con papà Vincenzo che ostenta risate forzate e disperate per paura che il mondo sappia la sua vergogna privata (il figlio gay); il ballo camp nell’acqua cristallina (vien voglia di scendere nelle ariose Puglie); il dignitoso funerale della nonna per le vie storiche del centro. C’è poco altro da dire, perché il film è talmente semplice, lineare, completo che è una gioia da vedere. Ultimi appunti sull’ottima colonna sonora di Pasquale Catalano, che si affianca ad alcune canzoni assai in tono con la storia (la trascinante 50mila di Nina Zilli, Pensiero stupendo ad un banchetto di tramezzini ripieni – ma quanto si mangia nei film di Ozpetek? Che poi ci stanno pure due bambine cicciottelle, severamente definite dalla nonna “grasse” –, la canzone dei titoli di coda appositamente composta da Patty Pravo, Sogno) e, direi quasi scontatamente, sul cast.
Sul cast andrebbe aperta una parentesi graffa: è semplicemente perfetto. Forse Ozpetek è il regista che meglio sa sfruttare i suoi attori nel cinema italiano. Si potrebbe partire dal protagonista, quel Riccardo Scamarcio che solo qualche primavera fa si riteneva idolo teen quindi da evitare: col personaggio di Tommaso mette a segno la miglior prova della sua carriera. Nicole Grimaudo è bravissima, così come intenso è Alessandro Preziosi, sorprendente per chi lo conosce solo come Fabrizio Ristori di Rivombrosa. Alla seconda prova col regista turco, Ennio Fantastichini giganteggia nel ruolo del padre, diametralmente opposto al frocio di Saturno contro (e fa man bassa di premi David di Donatello, Nastro d’Argento, Ciak d’Oro come miglior attore non protagonista), e sua moglie Lunetta Savino (ancora in un film familiare dopo il già citato Liberate i pesci) è grande sia quando urla stridula alla cameriera cosa cucinare, sia quando cerca di confidarsi con gli amici del figlio, sia quando scopre il marito con l’amante (anche per lei il Nastro d’Argento). Ma le due vere perle sono Elena Sofia Ricci ed Ilaria Occhini. La prima, sacrificata della bellezza, resa goffa da capelli gonfi, occhiali ingombranti e sedere rafforzato, torna finalmente al cinema in ruolo degno della sua bravura disegnando con spettacolare brio la figura della zia alcolizzata e ninfomane, che trascorre le notti in attesa dell’amante spacciato per ladro, così da giustificare la finestra aperta di notte (Nastro e Ciak come miglior non protagonista). La Occhini, invece, è il film: divina e bellissima nel fiore dei suoi settant’anni, è la monumentale nonna che nasconde da cinquant’anni un segreto di famiglia (“Gli amori impossibili non finiscono mai. Sono quelli che durano per sempre”), dispensa consigli da vecchia nonna salice (“Non fare sempre ciò che gli chiedono gli altri e sbaglia da solo, altrimenti la vita non ha senso”, “I signori si alzano dopo i contadini, ma un minuto prima degli scansafatiche”, “Noi siamo troppo piccoli e la vita molto grande”) e sceglie di andarsene con un’indigestione di piacere per una giusta causa: solo un dolore perfetto può ricompattare una famiglia imperfetta. È una scena straziante quella in cui si veste e si trucca mangiando fino a morire. David come miglior non protagonista, ma si consegna alla leggenda.
Voto: 8.
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