Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Senza snobismi, Pupi Avati è un signor autore, di fertilissima creatività e degno di grande stima. Il touch di Avati è riconoscibilissimo. Qui si manifesta in tre elementi: Strada Maggiore a Bologna e la musica sempre puntuale di Riz Ortolani. Per il resto, Il figlio più piccolo – terzo film di una sorta di trilogia dei padri che comprende quello malinconico de La cena per farli conoscere e quello ossessionato de Il papà di Giovanna – è un film inusuale nel percorso avatiano. Il padre di turno stavolta è un padre mancato: troppo cinico per essere assente, fa l’imprenditore ed è sull’orlo del fallimento. Pertanto decide di sposarsi una facoltosa esponente politica e al contempo richiama il figlio del titolo per affidargli la società in fallimento, liberandosi così della rogna. La storia è triste, se poi ci mettiamo pure un amore dimenticato, una madre affettuosa e disperata, un rapporto padre-figlio perso per strada.
Ma ciò che, forse, interessa maggiormente l’uomo di Bologna è raccontare la piccola Italietta dei furbi e meschini figuri che popolano la provincia alla conquista della nazione. Sta qui, però, il problema: Avati non trova il giusto tono, vaga a vuoto in parecchi passaggi, si perde qua e là tra banalità ed insicurezze. È un peccato, perché Avati è eclettico e sa il fatto suo. Tuttavia, il film non crolla e resta credibile grazie alla direzione perfetta del cast: se con grande mestiere Luca Zingaretti mette a segno un ruolo di ambigua perfidia col suo ex seminarista devoto, tocca ad un laconico, spietato, tragico Christian De Sica la parte del leone. La grande occasione che aspettava da anni – un ruolo drammatico, arrivato a quasi sessant’anni come papà Vittorio Generale della Rovere – alla fine gli è arrivata: bastano gli ultimi dieci minuti per riscattarlo da venticinque anni di scempi cinepanettonistici.
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