Regia di Takashi Miike vedi scheda film
La serie animata Yattâman è nata in Giappone nel 1977 dall'immaginazione di Tatsuo Yoshida che, con la sua Tatsunoko Production, fondata nei primi anni '60 ed attiva ancora oggi, ha contribuito non poco alla diffusione degli anime su scala internazionale, grazie a titoli come Gatchaman, Kyashan, Hurricane Polymer, o Tekkaman. Takashi Miike, uno dei registi più estremi versatili e prolifici in circolazione (ad oggi, all'età di 50 anni, ha già diretto complessivamente 83 tra film ed episodi di serie tv, svariando tra i generi più disparati), ha optato qui per un recupero filologico del fortunato anime, con una trasposizione che ne coglie appieno lo spirito, riproducendone fedelmente l'universo con le sue ambientazioni i suoi costumi e i suoi colori sgargianti e mostrandosi altresì devoto a quella che ne era la struttura portante dei singoli episodi, proponendosi come un sentito omaggio non solo alla singola serie ma all'intero operato della storica casa di produzione Tatsunoko fin dai primi fotogrammi quando, nella panoramica iniziale sullo scenario postapocalittico teatro del primo scontro, si possono scorgere prima un poster recante l'immagine di Akubi, la figlia del Mago Pancione Etcì, poi un busto in bronzo dell'Ape Magà.
«Finché ci saranno gli Yattâman l'ingiustizia nel mondo non trionferà!»
Gan-chan, specializzato nella progettazione robotica, e Ai-chan, esperta di apparati elettrici, sono due ragazzi che nei sotterranei della Takada Toys, l'azienda del padre di lui, nascondono la base segreta in cui costruiscono strampalati robot che gli vengono utili quando i due giovani assumono le fattezze dei cavalieri della giustizia Yattâman, con i nomi di Yatta1 e Yatta2, per contrastare le malefatte del trio Doronbo. Destinato a soccombere sempre per via dell'inettitudine dei suoi componenti, che sono la seducente ed irascibile Miss Doronjo, vera mente del gruppo, costantemente fasciata in un succinto abitino in pelle nera, e i suoi due tirapiedi Tonzuraa e Boyacky, grasso forzuto e ottuso uomo di fatica il primo, smilzo sfigato e svitato uomo d'ingegno il secondo, e di lei perdutamente innamorato e rigorosamente non corrisposto («essere ridotto in poltiglia da lei sarebbe un onore»), il trio Doronbo riceve ordini dal feroce dottor Dokurobei, il re dei ladri, misteriosa entità che si manifesta sotto le forme più disparate e che non esita ad umiliarli ad ogni fallimento con punizioni tanto crudeli quanto fantasiose. La missione dei tre incapaci è portare al loro capo i tre frammenti mancanti, da ricongiungere col quarto già in suo possesso, della Dokurostone, una pietra a forma di teschio dai poteri sconfinati; quella degli Yattâman è impedirglielo per difendere il mondo, aiutando contestualmente la giovane Shoko («sono la tipica sfigata degli anime giapponesi») a ritrovare il padre archeologo sparito proprio mentre cercava la preziosa pietra.
Questa versione live action delle avventure degli Yattâman e del trio Doronbo è probabilmente la migliore che fosse lecito attendersi: merito di un manipolo di attori splendidamente sopra le righe e della sceneggiatura di Masashi Sogo che, pur muovendosi all'interno di uno schema di base risaputo e ripetitivo, azzecca le caratterizzazioni dei personaggi e le loro interazioni donando un ruolo centrale alla carica erotica e alle contraddizioni della conturbante Miss Doronjo, oggetto del desiderio di Boyacky ma a sua volta attratta dal nemico Yatta1; merito della scelta programmatica di riproporre, con passione e cura certosina per i dettagli, tutti i passaggi chiave cari alla serie animata, che siano siparietti, mascotte, tormentoni, intermezzi cantati con tanto di balletti strampalati, o immagini ricorrenti ed immancabili (la nuvola di fumo a forma di teschio generata delle grosse esplosioni); merito delle gustose scenografie di Yuji Hayashida, dei costumi quanto mai calzanti e dell'uso pertinente della computer graphic, che uniti alla fotografia corposa e gommosa di Hideo Yamamoto, ricca di colori caldi, carichi, talvolta fluorescenti, e alla regia elegantemente fracassona di Takashi Miike capace (soprattutto nella prima parte) di impagabili slanci di comicità surreale (tra tutte l'esilarante scena di sesso tra Yatta Wan, il gigantesco cane robot parlante dalle mille risorse, e Virgin Road, la mega donna robot dai capezzoli sensibili), donano alla pellicola un amalgama visivo stupefacente ed un'atmosfera unica, sospesa tra il ludico ed il morboso con inattesi tocchi di romanticismo.
Tra tette mitraglia e bombe al nero di seppia, tra robot tonni pinne gialle e robot pesci volanti, lo Yattâman di Takashi Miike si rivela un'opera spassosa e orgogliosamente demenziale che, concepita come un anime al punto da far sembrare che gli attori si muovano all'interno di un fumetto, e diretta con piglio personalità e idee a getto continuo, riserva sorprese fin oltre i titoli di coda. Campione d'incassi in patria, Yattâman è uscito anche nelle sale italiane (seppur in sole 4 copie) grazie all'opera meritoria della casa di distribuzione Officine UBU.
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