Regia di Vincenzo Natali vedi scheda film
La sequenza d'apertura, compresi i titoli di testa, è una delle cose migliori della fantascienza recente: la soggettiva di un “essere” che nasce con enorme fatica sotto gli occhi attenti e vigili di alcuni scienziati. Natali, già in questa sequenza, gioca a carte scoperte: l'esperimento è la vittima, l'uomo il carnefice che ha venduto l'anima alla pretesa tecnoscientifica di risolvere il problema della vita e della morte: dalle cavie mostruose saranno estratte infatti delle proteine in grado, in linea teorica, di risolvere tutta una serie di problemi e malattie, dal diabete fino ad alcuni tumori. Natali, come già ne Il Cubo il suo film più noto, gestisce bene la tensione sfruttando effetti speciali di livello e un'ambientazione claustrofobica che da una parte toglie il respiro, dall'altra rimanda alle atmosfere inquietanti dell'imprescindibile Alien. Poi la situazione si complica: per la folle pretesa di una scienziata, si dà vita a un ibrido in parte umano, in parte animale. L'immagine della nascita anzitempo del “mostro”, in realtà un feto non ancora del tutto formato, è un pugno nello stomaco, e non solo per la violenza contro natura dell'atto in sé ma soprattutto per i tanti echi attuali che tale immagine condensa: come non vedere nell'accanimento dei camici bianchi sul feto, uno dei grandi tabù del nostro tempo, il rimosso per eccellenza ?: l'ecatombe di aborti, a volte, paradossalmente nati vivi, che ogni anno si realizza nelle stanze asettiche, incolori dei nostri ospedali ? E' questo il cuore di un film di genere, non per tutti: la denuncia chiara e netta di un limite, come quello imposto dalla Natura, che se superato, può provocare la distruzione dell'umano, il sovvertimento addirittura di ogni valore, cosa che del resto si realizza nel film, in modo disgustoso, anche dal punto di vista sessuale. Splice, nonostante una seconda parte più prevedibile e di gusto anche dubbio, ha almeno tre grandi meriti: innanzitutto quello di far riferimento a una fantascienza scomparsa da troppo tempo, quella di carattere profetico e morale degli anni '50 e '60 (e nel finale la scena nella laguna rimanda proprio a un grande titolo di quegli anni, Il mostro della laguna nera). Si tratta poi di un film ricco di rimandi cinematografici e anche di registri narrativi dei più vari. Il tono fiabesco della parte centrale, con protagonista la creatura cresciuta ed educata dagli scienziati divenuti genitori insegue certe atmosfere alla E.T, film del resto carissimo a Guillermo Del Toro, qui nelle vesti di produttore, e fa a pugni con l'incipit claustrofobico alla Alien e con il finale aperto e inquietante. Da ultimo, la rappresentazione di Dren, l'ibrido anche fisicamente reso e strutturato in modo tale da suscitare al tempo stesso un moto di repulsione e di tenerezza. Uno strano essere che come Frankenstein, desidera, sogna, ama e soffre, possiede una coscienza, probabilmente limitata e fisicamente fa impressione. Un vero e proprio aborto che più di tutto e contro tutti vuole, semplicemente, vivere.
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