Regia di Jan Svankmajer vedi scheda film
L’animazione è sostanza morta che acquista artificialmente una vita: esattamente come gli zombie, i vampiri, i fantasmi, e tutti gli istinti primordiali che sono stati sepolti dall’evoluzione e dalla civiltà, ma riaffiorano nella pazzia. La carne che cresce oltre i confini imposti dalla decenza, dalla morale, dalla religione e dagli stessi limiti materiali della sua deperibilità è l’origine della follia; la sua invadenza relega infatti il pensiero razionale in una posizione marginale, da dove non più esercitare alcun controllo sulle manifestazioni della fisicità. In questo modo, la poetica di Svankmajer – che promuove le cose inanimate a soggetti recitanti – incontra le teorie psichiatriche del dottor Murlloppe, il direttore del manicomio che cura i suoi pazienti togliendo al corpo quel di più che va restituito alla mente. La realtà immaginaria è un eccesso di energia iniettato negli oggetti inerti, che crea un mondo allucinato, impudentemente opposto a quello delle usuali leggi della meccanica e della logica: un universo in cui tutto è movimento, e non c’è tempo, né posto per i lenti ritmi della riflessione. Credere, meditare, attendere, che sono i principi di ogni fede messianica, non sono attività che si addicano a chi obbedisce soltanto alla necessità di agire, di creare, di provare e suscitare sensazioni, stimolando i centri nervosi del proprio organismo. La figura del marchese blasfemo - coprotagonista, con lo psicotico Jean Berlot, di questo film - è la sintesi di una filosofia che vede solo il lato concreto e dinamico dell’esistenza, negando dignità ad ogni astrazione che allontani dalla frenesia dei tripudi terreni. La speranza, che è l’essenza fondante del cristianesimo, è un inammissibile rinvio sine die, che sospende indefinitamente il godimento dell’attimo fuggente, e distoglie per sempre dall’immediatezza del piacere: meglio allora non restare fermi ad aspettare la seconda venuta di Gesù. Occorre, anzi, impedire il propagarsi del messaggio della resurrezione, continuando ad aumentare il numero dei chiodi che lo fissano alla croce. Secondo questa visione secolare, non si può vivere affidandosi ad un futuro redde rationem, ad una rivelazione che è di là da venire. Anziché rimandare, bisogna anticipare, cercando di realizzare già oggi quello che potrebbe verificarsi in avvenire. Questo, in fondo, è il senso della terapia preventiva ideata da Murlloppe: per sconfiggere le proprie paure (quella di essere sepolto vivo, o quella di diventare pazzo) ci si deve, fin d’ora, buttare a capofitto nella tanto temuta esperienza (farsi chiudere in una bara e deporre in una cripta, entrare volontariamente in un ospedale psichiatrico). La finzione assurda e provocatoria risulta vincente sull’imperscrutabilità del destino, perché crea adesso una concretezza, deliberata ed anche po’ beffarda, che sottrae drammaticità alle temute, ipotetiche evenienze di domani. L’uomo, pur nella la sua limitatezza, arriva così a sfidare il disegno divino, facendone oggetto di una mediocre e tragicomica messa in scena: uno strumento volgare, eppure micidiale, che viola spavaldamente le gerarchie cosmologiche, e dissacra lo spirito celeste trasformandolo in un goffo ed informe pupazzo di carne. L’anima di Sílení è una hybris a base di lingue di bue, di cervelli di capra, di budella e scarti di macellazione: macabre scorie che danzano, si amano e si divertono, e fanno zingaresche scorribande nel creato, a dispetto della finitudine, della bruttezza e dell’incipiente decomposizione.
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