Regia di Sergio Rubini vedi scheda film
È cosa nota che Rubini dia il meglio di sé quando torna a misurarsi con le atmosfere della propria terra, con gli affetti dolci e amari di un passato che ritorna, con i riti e i miti di un tempo perduto. Lo ha fatto spesso e lo fa anche questa volta, sempre in maniera potente, viscerale, piena di sfumature e caratterizzazioni sanguigne. E di riferimenti, alla sua vita e alla sua carriera. Lo fa con tocco immaginifico, alla Fellini (di cui fu alter ego per Intervista), anche se alla lunga sembra un po’ perdersi: non tanto nel filo del discorso, quanto nell’approfondimento psicoanalitico, che è poi il motore della vicenda. L’uomo nero è un capostazione (come nel suo esordio La stazione), artista mancato («Ferroviere per colpa di mio padre») che vive in grigio perché si crede l’erede «della buonanima di Cézanne» (dice lui). Che ha una moglie e un ragazzino, ma che è troppo concentrato sulle proprie frustrazioni per capire le urgenze affettive di chi gli sta intorno. E quella durezza, per altro solo apparente, si riflette sull’inconscio, soprattutto del figlio, animando in lui un immaginario di fantasmi e presenze oscure. Che troveranno requie solo molti anni più tardi, tornando alle proprie radici. Un amarcord lontano dalla magniloquenza plasticosa di Tornatore, ma più evocativo che del tutto riuscito.
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