Regia di Sergio Martino vedi scheda film
Western crepuscolare, cinico, brutale, fuori tempo massimo, ma ben strutturato e non privo di una certa atmosfera. All’epoca, il genere era già morto e sepolto da almeno un lustro e gli spettatori, dopo la grande abbuffata degli anni ’60 e dei primissimi anni ’70, disertarono senza troppi patemi le sale cinematografiche. La pellicola, però, è assai godibile, grazie ad una sceneggiatura (di Sauro Scavolini e del regista) che fa della semplicità e della essenzialità una virtù ed è (come quasi tutti i rari western girati nel periodo) l’evoluzione naturale del genere nato con Sergio Leone. Personaggi crudeli, spietati, quasi inumani; la violenza è portata al parossismo. Un’ambientazione desolata e deprimente, in cui il clima, come uno specchio che riflette l’animo dei protagonisti, trasforma sole e polvere, in acqua e fango. Lacune e banalità (comunque presenti), vengono ridimensionate dalla buona prova corale del cast tecnico, tra i quali spicca Sergio Martino, regista famoso solo per le tante commedie sexy, eppure ottimo artigiano dotato di professionalità e fervente intuitività (efficace la contrapposizione tra l’allegro balletto per le strade del paese ed il brutale massacro della diligenza, resa ancora più stridente dall’incalzante montaggio di Eugenio Alabiso). Il cast artistico fa la sua parte e la stella è Maurizio Merli, il quale è assolutamente a suo agio nella parte, non discostandosi molto dai consueti “poliziotteschi” ed interpretando una sorta di trisnonno del Commissario Betti; dalla parte dei buoni, ma non dalla parte della legge (così da poterla calpestare senza tanti scrupoli), un campione con la pistola, sempre pronto a fare a botte ed in più, micidiale con l’accetta. Buona prova di John Steiner (nella parte di Voller), abile nel dare al personaggio le sembianze dell’odioso e viscido doppiogiochista; sempre affidabile Phillippe Leroy, che interpreta un ambizioso e spregiudicato affarista (McGowan) oramai sul viale del tramonto, mentre Sonja Jeannine (nella parte di Debrah, la figlia di McGowan), abituata nelle precedenti pellicole a mostrare, e bene, le proprie grazie [“I prosseneti” (1976) di Brunello Rondi e “La figliastra” (1976) di Edoardo Mulargia], si trova un po’ nei fastidi a recitare con un copione privo di scene di nudo, così, per levarla d’impaccio, gli sceneggiatori le fanno dire non più di una ventina di parole.
Interessante il lavoro di Guido e Maurizio De Angelis. Tra le canzoni principali, quella dei titoli di testa risulta pittoresca quanto martellante e, dopo un’iniziale sorpresa (il cantante sembra in preda alle coliche), risulta assai orecchiabile. "Snake", utilizzata solo in occasione della convalescenza del protagonista prima del riscatto finale, è anch’essa azzeccata ed ha un classico ritmo country.
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