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La clef

Regia di Guillaume Nicloux vedi scheda film

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La recensione su La clef

di joseba
8 stelle

Trilogie policière, ultimo atto. Dei tre polar girati da Guillaume Nicloux tra il 2002 e il 2007, La Clef è senza dubbio il più articolato e stratificato: proliferano i personaggi, raddoppiano i piani temporali e i temi complementari della filiazione, della paternità e della maternità si specchiano ininterrottamente. La mancanza e il vuoto che pungevano i protagonisti dei due film precedenti, spronandoli all’azione (Une Affaire privée) o guidandoli alla guarigione (Cette femme-là), qui si inaspriscono in irrimediabile assenza e in irrecuperabile rifiuto, divenendo fattori d’inibizione (la riluttanza alla procreazione di Eric) o agenti patogeni veri e propri (il cancro di Manéri, emblematicamente arginabile solo grazie un trapianto dalla figlia). La scellerata irresponsabilità dei padri, l’incolpevole fragilità dei figli e la dolorosa impotenza delle madri sono dunque i fili tematici che ne La Clef si intrecciano fittamente andando a comporre un arazzo imbrattato di sangue, follia e morte. Ma anche intessuto di umanità, speranza e amore: squarci di vitalità che lo strappano alla sterilità della rassegnazione e alla passività del disfattismo.

L’universo narrativo di Nicloux è dichiaratamente olistico: se in Une Affaire privée una ragazza incontrata in un locale notturno da Manéri accennava all’“effetto farfalla” sostenendo il profondo legame fra il singolo e il tutto, Cette femme-là era improntato a un concetto analogo ascoltato da Michèle alla radio e ribadito alla fine dei titoli di coda: “una strada inizia esattamente là dove finisce”. Con La Clef l’idea dell’interdipendenza reciproca è portata alle estreme conseguenze: non soltanto il commissario Varin discute di universi paralleli e di concetti unificanti col collega Larue (Gilles Cohen), ma è la stessa costruzione filmica a oggettivare limpidamente l’interconnessione di fatti ed eventi in apparenza irrelati. Tempi, spazi ed accadimenti distanti tra loro influiscono reciprocamente gli uni sugli altri (non a caso Nicloux ha parlato di “cascade evénementielle”), finendo per riunire ciò che sembrava separato (l’indagine del commissario Varin e gli interrogativi sulla paternità di Eric) e ricongiungere ciò che pareva disgiunto (la disperata ricerca della figlia di Manéri e i loschi traffici di Joseph Arp). Una partitura filmica che rifugge dallo scioglimento didascalico (la soluzione del caso poliziesco) per spostare l’armonia ad un livello superiore, quello dell’arrangiamento strutturale.

Sbarazzatosi di ogni debito nei confronti dei modelli d’ispirazione (il noir neohollywoodiano e melvilliano in Une Affaire privée; il thriller psicologico americano anni ‘90 in Cette femme-là), Nicloux può finalmente attingere alle origini del proprio cinema, tornando a una tecnica di ripresa più leggera e diretta (simile a quella dei suoi primi film). Un metodo di lavoro  teso a valorizzare al massimo il momento del tournage e le prestazioni attoriali: bando all’attrezzatura pesante e alle indicazioni di regia eccessivamente vincolanti, il quarantunenne cineasta francese gira con una camera a spalla ad obbiettivo unico, concentrandosi esclusivamente sul gioco recitativo e sulle dinamiche di interazione sul set. Le lente carrellate in avanti e le composizioni in profondità di campo che impreziosivano Une Affaire privée e Cette femme-là lasciano ora spazio a una macchina a mano attenta a captare, come uno stetoscopio aderente al corpo degli attori, le vibrazioni emotive che si producono sulla scena. Inevitabile portato di un approccio così prensile e immersivo è il moltiplicarsi delle soggettive: il punto di vista dei personaggi, in primis quello di Eric (Guillaume Canet), assume una salienza pari a quella del metteur en scène. Ma, più in generale, quasi tutti i personaggi, anche quelli più sgradevoli come Luc, sono titolari di sguardo (hanno cioè accesso alla soggettiva): condivisione del principio primo del cinema che suggella visivamente il legame performativo tra Nicloux e le sue creature.

Cast e casting, come al solito, di estrema finezza: oltre agli immancabili Thierry Lhermitte e Josiane Balasko, ne La Clef  figurano Jean Rochefort (Joseph Arp), Vanessa Paradis (Cécile Manéri),  Pascal Bonitzer (il padre di Eric) e Marina De Van (Sophie). E, pura delizia cinéphile, fa addirittura capolino Maria Schneider (Solange, l’ex compagna di Manéri). Né un film di regia né un film d’attori, ma un’opera compiutamente organica.

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