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Violenza estrema

Regia di Guillaume Nicloux vedi scheda film

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La recensione su Violenza estrema

di joseba
8 stelle

Secondo capitolo della trilogie policière inaugurata l’anno precedente, Cette femme-là conferma l’attitudine di Guillaume Nicloux a interpretare il polar in chiave esistenziale, vale a dire la sua propensione a frequentare i meccanismi narrativi e le figure tipiche del genere preferendo l’ombreggiatura delle psicologie e la lumeggiatura dei conflitti interiori ai fuochi d’artificio della tensione. Caratteri destinati a restare, quelli sbozzati da Nicloux, tanto negli occhi dello spettatore quanto nell’universo narrativo del cineasta, se è vero come è vero che gli stessi personaggi fuoriescono dalla “loro” pellicola per visitare, magari di sfuggita, il film adiacente. È quanto succede al François Manéri di Une Affaire privée che ritroviamo in Cette femme-là, malconcio e ingessato ma con l’immancabile sigaretta tra le labbra, ad offrire al capitano Varin una preziosa informazione in cambio di uno strappo alla regola (il detective privato si è messo in proprio senza la dichiarazione obbligatoria alla prefettura).

Anche in Cette femme-là si indovinano tracce di cinema americano (assonanze con Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, distorsioni lynchane, malie friedkiniane), ma non diversamente da Une Affaire privée le titolate suggestioni sono metabolizzate da uno sguardo personale che ha nello scavo psicologico la sua intrinseca ragione di essere. Così il capitano di polizia Michèle Varin (una Josiane Balasko monumentale) si smarca da qualsiasi ipoteca derivativa per affermarsi, nel corpo sgraziato e nella mente funestata dal dolore, come un personaggio irriducibilmente singolare (non a caso Nicloux ha dichiarato di aver scritto il ruolo di Michèle appositamente per lei). Medesima accuratezza nella caratterizzazione dei comprimari e delle figure secondarie: non solo il collega Bazinski (Eric Caravaca), ma anche il seducente Daniel (Frédéric Pierrot) e persino il giovanissimo Léo (Ange Rodot) sono sagomati con perizia e abbondanza di tratti. Alla larga da ogni facile psicologismo.

Per Nicloux il polar non è un repertorio di formule da combinare freddamente, ma rappresenta un “luogo caldo” in cui mettere a nudo l’interiorità dei personaggi, trattando queste entità fittizie alla stregua di creature dotate di vita propria e non come ruoli convenzionali o attanti astratti: stanti queste premesse, sorprende forse che l’idea della trilogia (non prevista dall’inizio) si sia imposta spontaneamente di film in film? Eppure se in Une Affaire privée era la mancanza a smuovere intimamente i personaggi, qui è un autentico vuoto affettivo a ibernare il cuore della protagonista: la solitudine non è più una rogna da compensare con l’azione, ma una condizione che paralizza i sentimenti e precipita nell’angoscia. Da enigma cognitivo l’indagine evolve inevitabilmente in percorso terapeutico teso ad esorcizzare i demoni inconsci (gli incubi di Michèle).

Spalleggiato dalla fotografia del mostro sacro Pierre-William Glenn (vero e proprio mago della steadycam, storico collaboratore di Alain Corneau e Bertrand Tavernier) e fiancheggiato dalla partitura à la Bernard Herrmann di Eric Demarsan (già compositore delle musiche di Une Affaire privée), Guillaume Nicloux adotta uno stile di ripresa consono a un polar permeato di risonanze psichiche: inquadrature lunghe, immagini architettate in profondità di campo, implacabili carrelli in avanti. E su tutto la volteggiante fluidità di una steady che raggiunge il culmine del virtuosismo durante l’incursione solitaria di Michèle nel covo della Banda Dalton: un piano sequenza di 3’ e 30” in cui la cinepresa, incollata alla poliziotta, attraversa le condizioni di illuminazione più svariate, passando dalla penombra alla luce artificiale per piombare infine in un’oscurità squarciata dal fascio della torcia elettrica. Il noir è questione di stile. Sempre.

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