Regia di Miguel Littin vedi scheda film
Settembre 1973: le forze armate guidate da Augusto Pinochet prendono il controllo del Cile; con la morte di Salvador Allende, Pinochet prende il controllo del governo: un despota, che amministrerà lo stato con brutalità e continue oppressioni.
Terminano così i 3 anni di governo di Allende: uno dei pochi presidenti realmente pacifisti e veramente impegnato nelle riforme che avrebbero potuto risollevare un paese dalla povertà; un duro colpo per tutti i partiti di stampo comunista durante la guerra fredda, ma soprattutto, un'enorme batosta per i diritti di libertà dell'uomo.
Non fu Allende, difatti, l'unica vittima del golpe cileno: tutti i suoi ministri e sostenitori vennero presto catturati e deportati, nel migliore dei casi; nel peggiore, scomparivano nel nulla, cancellati dai registri di un regime che non tollerava opposizioni, andando a comporre la lunga lista dei Desaparecidos. Tra questi, vi furono i membri del consiglio dell'Unione Popolare, relegati nel campo di concentramento dell'isola Dawson, nello stretto di Magellano, costantemente sul filo del rasoio tra vita e morte.
Miguel Littìn si rifiuta di dimenticare quel periodo di soprusi: ricostruisce così la testimonianza di Bitar, uno degli scampati dall'inospitale Terra del Fuoco, sottolineando ancora una volta che il cinema, oltre ad essere una forma d'arte, è anche storia. E storie, per l'appunto, come questa, possono e devono essere raccontate.
Littìn dimostra di avere una buona dimestichezza nel rappresentare un preciso periodo storico con tutte le sue sfaccettature: non semplicemente inscenandolo, ma dando vita ad un microcosmo, che tramite figure retoriche, quali numerose allegorie, rappresenta ciò che realmente stava accadendo in tutto il Cile. In parole povere, l'isola, in cui una giunta militare che mantiene l'ordine con la forza, tenendo prigionieri i suoi cittadini, non attraverso alte mura o filo spinato, ma con sottili e ambigui abusi, altri non è che una miniatura della nazione sudamericana.
Il regista cileno non disdegna di criticare, velatamente e con sobrietà, anche determinati elementi che hanno portato a quello stato di cose, come per esempio gli onnipresenti Stati Uniti: colpevoli di aver favorito un regime del terrore per egoistici e vanagloriosi scopi di controllo sul continente.
Tutto questo è possibile grazie ad una sceneggiatura che Littìn scrive sapientemente, con tanta voglia di denunciare quel passato così nefasto, riuscendo splendidamente a portare sul grande schermo una faccenda tanto delicata.
Impossibile non provare interesse e disgusto per gli infidi metodi con cui si tenta di spezzare la volontà di questi poveri uomini, la cui unica colpa è stata quella di professare liberamente i loro ideali politici: lettere concesse per pochi minuti prima di essere bruciate, lavori stancanti e tanto altro. Ma non si arrenderanno: continuano con vigore e intelligenza a non dimenticare la propria identità, il loro raziocinio prevale sui tormenti, conoscendo sempre il valore incommensurabile di una matita, unico spiraglio di espressione.
Merita un discorso a parte la fotografia: costantemente fosca e demoralizzante; simboleggia lo stato, fisico e mentale, di queste persone spossate nel corpo e nell'anima, costrette in un ambiente desolato e scortese grazie alle bellissime tinte glaciali. Perfetto il bianco e nero all'inizio, che rende il giusto senso storico della pellicola; efficaci i pochi spiragli luminosi concessi a questi individui: dei leggeri raggi solari che illuminano i volti di persone, che dopo tanto, possono svagarsi o avere notizie di persone che stanno a cuore.
La regia di Littin è posata: si muove lentamente, attribuendo un forte senso di mestizia alla vita che per 17 anni dovranno trascorrere i prigionieri di questa piccola e gelida isola. Non si può negare che sia impegnata e riuscita, ma purtroppo si sente troppo l'impronta documentaristica, che è mischiata malamente alla buona sensibilità del racconto: talvolta si presentano scene davvero prolisse; esse frenano bruscamente il ritmo della pellicola, in momenti il cui unico scopo è quello di mostrare la quotidianità dei lavori forzati e dell'obbedienza imposta con la violenza: non solo già viste in altre decine di pellicole, ma colpevoli di essere spesso in risalto in un film così delicato.
Troppi anche i primi piani che Littin usa per creare sentimentalismo facile nel pubblico: movimenti di camera perfettamente evitabili. Vengono toccate ben più coscienze grazie a dei sacchi e una fotografia grigia e nebulosa, o mediante un soldato apparentemente crudele che permette il furto di frutta secca ricca di vitamine, di qualsiasi faccia rattristata.
Anche la colonna sonora, come la regia, ricerca spesso l'ipersensibilità spicciola per mezzo di musiche volutamente tristi e alte sviolinate che invadono continuamente lo schermo: tutto ciò ha come unico intento quello di toccare la corda delle emozioni il più spesso possibile. Il problema è che alla lunga stancano anziché colpire.
Il lato peggiore, però, è sicuramente una trama molto pesante a causa di uno stile documentaristico che non aiuta lo spettatore a seguire le vicende e i possibili intrecci. Lo spirito è forte, ma persino il cinefilo più appassionato della storia del Cile, comincerà a stancarsi una volta trascorsa la prima ora: tutto è subito mostrato nei primi minuti e a parte qualche piccola piega (spesso insignificante), la storia procede lenta nei suoi binari prestabiliti. Come se non bastasse, la continua voce fuori campo non lascia mai spazio alla fantasia dello spettatore, compromettendo l'intero film che rischia di diventare soporifero.
Neppure gli interpreti aiutano: seppur gradevoli, sono tutti alle prime armi; in una simile pellicola servono solo a fare assumere quell'aria da documentario a causa del loro distacco. Manovrati come burattini dalla cinepresa, che si interessa ben più alla storia che al cinema.
Littìn sembra essere più attaccato ai ricordi e allo stile, che al cinema e alla narrazione. Malgrado questo, riesce, grazie ad una capacità unica a parlare del Cile rinchiuso in un'isola, dando, con delle sceneggiature meravigliose, la giusta immagine di dignità e ideale.
Indispensabile testimonianza che non perde attualità; nel finale darà una lezione di umanità non indifferente con il toccante passaggio di testimone da padre in figlio, in cui risiede la speranza di un futuro migliore.
I titoli di coda che scorrono con le ultime frasi di Allende al popolo cileno ci fanno comprendere cosa veramente significhi l'avvento di una dittatura.
"Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano, ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento."
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