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Isola 10

Regia di Miguel Littin vedi scheda film

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La recensione su Isola 10

di (spopola) 1726792
8 stelle

E’ certamente più importante per ciò che dice che per come lo dice (anche se il film è sobrio e funzionale). Quello che ci viene raccontato è infatti un tragico pezzo di storia da non dimenticare che ci riporta alla tragica realtà di un altro drammatico 11 settembre, quello del 1973, nel Cile sconvolto dal colpo di stato contro Allende.

Quello che ci viene raccontato da questo film, è un tragico pezzo di storia da non dimenticare. Peccato che nonostante il suo passaggio lo scorso anno dalla Festa del cinema di Roma (o come cavolo si chiama adesso) e l’accoglienza calorosa che gli è stata riservata in quella circostanza, la pellicola di Miguel Littin non sia ancora riuscita a trovare uno spazio distributivo per una adeguata e “necessaria” programmazione in sala: qualche visione riservata o di “fortuna” e poco altro, insomma, almeno fino a questo momento (segno evidente che per la distribuzione nostrana le vicende cilene non sono un argomento abbastanza stimolante per attirare l’attenzione degli spettatori e che è meglio parlare di facezie, piuttosto che di accadimenti politici). No so se qualcuno “vorrà rimediare” alla imperdonabile dimenticanza (ma francamente ci credo davvero poco, e temo che anche questo film passi ingiustamente ad ingrossare la già foltissima schiera della categoria degli “invisibili”).

E’ certamente più importante per ciò che dice che per come lo dice (il film è sobrio e nel complesso ben articolato, nulla da eccepire al riguardo, è corretto e funzionale, ma purtroppo gli manca l’estro di qualche “impennata creativa” indispensabile per  farlo volare davvero in alto), anche se le già (ri)conosciute  qualità del regista  si riconfermano tutte, soprattutto nella sapiente impaginazione della storia e nei frequenti momenti di  accentuato lirismo, vivificati per altro da un montaggio accuratissimo e funzionalmente emozionale (opera di Andrea Yaconi) che aggiunge un notevole valore empatico alla costruzione “drammatica” delle vicende. 

I fatti narrati (su sceneggiatura dello stesso Littin) traggono origine dal volume Isla 10 di Sergio Bitar e ci riportano alla tragica realtà di un altro drammatico 11 settembre, quello del 1973, nel Cile sconvolto dal colpo di stato contro Allende perpetrato con infamia (e l’appoggio [in]diretto degli Stati Uniti d’America), dal generale Pinochet. Mettono dunque in scena fatti e avvenimenti effettivamente accaduti che è bene mantenere vivi nella memoria (ricordare per non dimenticare) e soprattutto nelle coscienze critiche che si oppongono – e intendono continuare a farlo - ad ogni dittatura o sopruso.

L’avvento al potere di Pinochet ha avuto, come ben sappiamo, un tragico bilancio anche in termini di vite umane,  a partire  proprio da quella dello stesso Allende che decise di non arrendersi. Analoga sorte sarebbe potuta toccare ai suoi più stretti collaboratori che non ebbero il suo stesso “coraggio”, se non ci fossero state forti pressioni internazionali al riguardo (soprattutto quelle della Croce Rossa) che evitarono una quasi sicura condanna a morte, ma non riuscirono ad attenuare o alleggerire le conseguenze traumatiche della repressione: quel che restava dell’intero governo repubblicano annullato con la forza delle armi (un governo eletto democraticamente come ben sappiamo, anche se in certi paesi e in certi periodi è proprio la parola “democrazia” che fa paura e che “deve” essere avversata) fu cosi  rinchiuso – e si parla di ministri, sottosegretari, funzionari e collaboratori integerrimi -  in un vero e proprio campo di concentramento (che viene adesso chiamato la Guantanamo cilena)  nell’isola di Dawson, a sud dello stretto di Magellano, in un clima inospitale fra torture e lavori forzati resi ancor più pesanti dal freddo pungente della zona, e soprattutto “annientato” sotto il profilo psicologico, come si fa di solito in queste circostanze, “cancellando” le singole, preesistenti, riconosciute individualità (la “scientificamente efficace” privazione  dei  dati di riferimento anagrafico che riduce l’uomo alla identità fittizia di un semplice numero, unico segno di riconoscimento in un branco di anonime presenze).

La detenzione forzata, si protrasse per circa un anno, poi sotto le pressioni internazionali (non solo la Croce Rossa, ma anche l’Onu e il senatore Ted Kennedy) il dittatore cileno approdò a più miti consigli e mise finalmente fine al “confino” e alla limitazione coercitiva delle libertà dei prigionieri.

La cronaca della terribile, dolorosa esperienza “carceraria” di quel periodo,è stata documentata appunto nel libro sopra citato. scritto da uno dei tanti “ospiti” (concedetemi l’eufemismo) dell’isola, Serge Bitar, appunto,  che era stato ministro delle politiche minerarie del Governo Allende (e quell’Isla 10, si riferisce proprio al numero che gli era stata assegnato e con il quale veniva identificato nel corso della prolungata reclusione). E’ dunque il dettagliato diario di “un carcerato di guerra”, e dei soprusi subiti,  un po’ come la testimonianza – vero e proprio atto d’accusa – che lasciò Silvio Pellico con Le mie prigioni (che costarono all’Austria più di una guerra persa, si leggeva allora sui libri di scuola, ma quelli erano evidentemente tempi molto più reattivi dei nostri per quanto riguarda il “pubblico pensiero” e la condanna internazionale di simili criminosi eventi).

Vengono fuori infatti anche qui tutti i paradossi drammatici di pratiche e interrogatori fortemente vessatori, che se non sapessimo riferiti a una realtà devastante e scientemente perpetrata, potrebbero persino sfiorare il grottesco: certo, in questo caso non si è arrivati a una “eliminazione di massa” come accadde nei campi nazisti, ma non credo che possa essere considerato meno criminale il disegno e l’orrore di questi nuovi campi di prigionia che in ogni caso ne ripercorrono le tracce forse semplicemente aggiornate ai  tempi.

Stenti e fatica, freddo, torture e privazioni, dunque (e nemmeno in questo caso tutto il foto numero di detenuti calcolato in oltre 400 unità,  riuscì  a sopravvivere) senza contare poi che molti di quelli che comunque riuscirono a riacquistare la libertà, lo fecero  in condizioni di salute fortemente precarie,  cosicché la decimazione indiretta continuò implacabile anche “successivamente”  (come accadde fra gli altri all’ex ministro Toha,  morto poco tempo dopo il suo ritorno a Santiago).

Una buona parte di coloro “che ce la fecero”, scelsero comunque nell’immediato, la via dell’esilio,  ma quasi tutti sono poi rientrati in patria dopo il 1988, che è l’anno che segna la fine ufficiale della dittatura (alcuni ritornando a coprire qualche più marginale carica pubblica).

Questi i fatti: Littin è particolarmente “accurato” e preciso nel raccontare la vita del “campo” fra minacce e violenze (lo sbarco nell’isola, con i prigionieri incappucciati e barbaramente malmenati è uno dei momenti più drammaticamente efficaci) e nel dettagliare i tesi rapporti con il comandante della base militare e i graduati, ma questi se sono aspetti “necessari” anche per storicizzare le cose, a mio avviso sembrano non essere invece prioritari nel disegno generale del regista, che giustamente sceglie invece di privilegiare, al fine di essere più incisivo e diretto,  la rappresentazione della vita quotidiana, soffermandosi a sottolineare, spesso con interessanti  intuizioni stilistiche, i rapporti tra oppressi e oppressori, senza dimenticare di evidenziare i casi di sotterranea, empatica solidarietà che si verificarono in alcune circostanze. La cosa però che riesce a mettere a fuoco in maniera esemplare, è lo smarrimento generalizzato di un popolo “traumaticamente” ferito. dove tutti - anche i soldati chiamati a infierire -  pagano in qualche maniera le conseguenze in termini di sofferenze o di disagio.

Littin riesce ad evitare poi  (ed è un merito non secondario) il rischio della ripetitività, non solo alternando i fatti della detenzione con  inserimenti  riferiti a ciò e era accaduto e accadeva oltre l’isola, e lo fa con un “pudore” e una “discrezionalità  esemplare, ricorrendo spesso a immagini di archivio (i momenti del golpe, le bombe contro il palazzo presidenziale della Moneda, le ferocissime, successive repressioni indiscriminate della dittatura) ma cercando anche di penetrare l’intimo delle singole esperienze,  mostrandoci le poche lettere scritte alle famiglie, i disegni, le poesie, che aiutarono a tirare avanti senza lasciarsi travolgere dalla disperazione dello sconforto, che sono poi quei momenti di “umanità” ritrovata travalicano le maglie del ferreo regolamento militare. Non ci sono scarti fra i vari piani. Le sequenze si integrano senza sbavature, richiamate alla memoria magari dalle immagini trasmesse da un apparecchio televisivo momentaneamente “concesso” perché venisse riparato, o ancora dalle frequenze “intercettate” di Radio Mosca che racconta il “fuori”.

Riproiettandosi  poi nella contemporaneità,  il regista non si limata a documentare il passato di quella ormai lontana permanenza nell’inferno dell’isola, ma “racconta” anche il dopo,  spingendosi negli anni oltre il 2000, quando, ormai trascorsi ben trent’anni, alcuni di quei sopravvissuti ritornano a Dawson per  riappropriarsi  del luogo dell’infamia dentro cui sono stati costretti loro malgrado, ad imparare l’arte di sopravvivere “nonostante tutto”, per interrogarsi  anche “criticamente”, e soprattutto  per confrontarsi dialetticamente con alcuni dei  lontani carcerieri, a loro volta di nuovo reintegrati nella gestione del potere democratico, affidando però  poi la conclusione, proprio alle ultime parole di Allende, quelle del suo discorso nel palazzo assediato dall’esercito,  pronto a  resistere (o a morire) senza piegarsi o arrendersi.

Buona la prova degli interpreti (Benjamin Vicuña, Cristian de la Fuente, Sergio Hernandez, Luis Dubò)  così come la resa fotografica dell’insieme (Fotografia di Miguel Ioann Littin)  e il supporto musicale realizzato da Jaun Cristobal Meza.

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