Regia di Danis Tanovic vedi scheda film
Più che perplesso, credo di potermi dichiarare irritato.
Il mio disappunto nasce dal fatto che mi ostino a dare ancora credito a Tanovic (pagando dei soldi per andare a vedere le sue opere) immaginando sempre una possibile resurrezione che non arriva.
All’atto pratico infatti una sola ciambella gli è riuscita ben lievitata e “col buco”: No Man’s Land, ovvero la sua opera d’esordio accolta con esiti favorevolissimi, certamente una pellicola di pregevole fattura, ma oggettivamente a questo punto non sufficiente per definire in positivo una carriera che dopo quell’exploit (casuale?) si è dimostrata in rovinosa discesa (speriamo che non accada lo stesso al superosannato Florian Henckel von Donnersmarck de Le vite degli altri che con The Tourist è caduto a sua volta nel tritello confezionandoci una bufala indecente piena di macchiette senza senso e anche mal realizzata).
Tornando al “nostro”, dopo le precedenti cocenti delusioni, mi sono dunque accollato – ahimè!! – anche l’onere della visione della sua ultima fatica (Triade) passata dal festival di Roma dello scorso anno credo a questo punto per un “eccesso” di credito nei sui confronti da parte dei selezionatori, che si è dimostrato però alla resa dei conti – è il mio personale parere – assolutamente ingiustificato.
Questa pellicola infatti indubbiamente colpisce, ma in negativo, soprattutto per l’eccessiva macchinosità un po’ artificiosa di una sceneggiatura mal strutturata, e alla fine persino prevedibile e scontata, nonostante i tentativi di “sospensione” e anche – a volte – di leggero depistaggio. Non è però questo l’unico neo, poiché esiste anche la presunzione dell’Autore (che autore non è e non ha in questo caso nemmeno la tenuta dell’artigiano di valore) che si impania in una messa in scena troppo lambiccata ma priva di guizzi e di felici intuizioni che possano in qualche modo riscattarla (il ricorso al montaggio parallelo – già di per se usurato – è didascalico e inefficace, il ritmo è tutt’altro che entusiasmante e la direzione degli attori è complessivamente sotto il livello di guardia nonostante la buona volontà di Colin Farrell e soprattutto di Christopher Lee nel ruolo risolutore dello psichiatra Joaquin, che avrebbero meritato una guida più sicura e attenta per risultare per lo meno credibilmente efficaci).
Certamente le intenzioni erano buone, ma perché potessero approdare a un risultato decente ci sarebbe stato bisogno di ben altro trattamento e soprattutto di una mano più ferma e consapevole. Allora visto che Tanovic si è confermato incapace di mantenere il timone nella giusta direzione,
dobbiamo rassegnarci a fare i conti anche questa volta all’inevitabile naufragio della navicella.
Mark e David sono due audaci fotoreporter che in Kurdistan rischiano ogni giorno la vita fra mine e pallottole per realizzare inediti reportage di guerra.
Mark è fra i due quello che si espone con maggiore incoscienza nello sfidare il pericolo, mentre David è più trattenuto, soprattutto per il fatto che il suo pensiero è spesso concentrato sulla gravidanza della sua compagna che è rimasta a Londra ad attenderlo.
Al termine di una dura battaglia fra guerriglieri, i due fotoreporter decidono di separarsi, ma quando Mark torna a casa si rende conto che di David non solo non se ne ha notizia, ma se ne sono perse completamente anche le tracce.
Comincia così per lui un terribile incubo ad occhi aperti con improvvisi flashback mnemonici che gradualmente – come sempre accade in questi casi – sveleranno i retroscena di una tragedia rimossa, ma che i pezzi del puzzle che lentamente riprendono il loro posto e ricompongono perfettamente il quadro, riproporranno in tutta la sua drammaticità
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