Regia di Danis Tanovic vedi scheda film
Un film che precipita miseramente nel terreno minato dello psicodramma cinematografico ovvio e prevedibile e che, nonostante la portata davvero tragica del dramma che si sta consumando, ci fa affondare definitivamente nelle sabbie mobili dell’indifferenza.
Dovremo “pesantemente” ridimensionarlo alla fine, questo Danis Tanovic, sopravvalutatissimo (ora possiamo ben dirlo, visti i successivi esiti) per il suo indubbiamente interessante esordio con No Man’s Land (una “fortunata” coincidenza? è certamente un eufemismo, il mio, e non vorrei sembrare irriverente, ma sicuramente molto ha contato la tragicità degli eventi, il racconto quasi in diretta di un dramma sconvolgente) oltre che per il più che accettabile contributo (un episodio non disprezzabile) alla causa collettiva di tutti i registi impegnati a ricordare la tragedia dell’undici settembre, che è stato poi un “riconoscimento”guadagnato proprio in virtù del successo e dei premi tributati con evidente eccesso di zelo, alla sua prima fatica. Dopo però non è stato capace di centrare di nuovo alcun bersaglio, riuscendo persino a distruggere una sceneggiatura che probabilmente nelle mani del suo effettivo destinatario nel frattempo deceduto (il grande Kieslowski) si sarebbe trasformata in un altro buon film, se non in un “capolavoro assoluto” (mi riferisco a L’enfer, che io ho trovato particolarmente detestabile, proprio per i “vizi” di una messa in scena troppo farraginosa e “molestamente” pretenziosa).
In quel caso, il regista poteva avere l’attenuante di una non adeguata “conformità” di pensiero e di un “eccesso di presunzione” per aver accettato con troppa faciloneria, un progetto non suo, per altro distante anni. luce da quella che sembrava essere la sua visione di “cinema”, quasi come in un “delirio” di onnipotenza dovuto all’imprevista, clamorosa notorietà raggiunta al suo esordio, ma adesso che, pur ritornando di nuovo su temi a lui più congeniali ha - diciamolo chiaramente – un po’sbarellato un’altra volta con questa sua ultima fatica, non possiamo concederli al momento altre attenuanti, e forse è il caso che ci soffermiamo tutti a riflettere seriamente (e lui per primo) su quello che è davvero il suo effettivo valore, che non si discosta probabilmente dalla generica mediocrità un po’ furbetta del “mestierante” che si è un poco montata la testa.
Ci si sono incaponiti in molti per “volerlo” a tutti i costi (Sydney Pollack e Anthony Minghella ad esempio, nel frattempo anche loro prematuramente passati a “miglior vita”, come si dice in genere) come motore propulsore nella la rielaborazione in immagini (regia e sceneggiatura) del “forte” (come tematiche) romanzo di Scott Anderson, un ex corrispondente di guerra passato dall’Uganda a Beirut, dalla Bosnia alla Cecenia, e quindi praticissimo di “questioni di guerra e di guerriglia”. Pensando evidentemente davvero che fosse l’uomo giusto per l’impresa, e sulla carta anche io, devo confessarlo – nonostante la cocente delusione provata con la sua precedente opera – immaginavo che questa sarebbe stata un’ottima occasione per una auspicabile “resurrezione” che invece non c’è stata (e una parte della responsabilità è proprio attribuibile già alla sceneggiatura, oltre che a un cast un po’ abborracciato, come per esempio l’immissione “strategica” della bella Paz Vega che fittiziamente aggiunge con la sua presenza, un pizzico di retorica in più dentro un contesto che solo nella prima parte ha qualche ragione di interesse, con sequenze capaci di mettere in moto un po’ di adrenalina nel cervello anche per le tematiche scottanti che affronta, ma che poi scade nella convenzionalità della maniera in tutta la seconda parte, trascinandoci lentamente dentro una noia distrattiva persino un po’ soporifera).
Perché alla fine, stringi stringi, certo che “denuncia” (ancora una volta gli orrori, le tragedie e le inutilità della guerra – di ogni guerra con le conseguenze devastanti che si porta dietro) e lo fa puntando i riflettori su una delle tante stragi dimenticate di questi ultimi anni, quella degli attacchi iracheni contro i curdi (siamo nel 1988) che sfocerà una delle più feroci operazioni di pulizia etnica che si sono consumate sul finire del secolo scorso, ma poi in fondo. dopo essere partito forse con il piede giusto, si riduce a una non troppo desueta storia di “colpa” e “redenzione” che ha per protagonisti quegli eroi/non eroi che sono i reporter di guerra (Cristina Paternò) che non stupisce né “eccita” il pensiero, per quanto si conformizza e si appiattisce progressivamente, proprio mentre tenta di definire la sindrome post-traumatica che ha colpito uno dei due protagonisti (il Mark di Colin Farrell) a seguito delle ferite e dei (prevedibili) traumi che ha riportato sul quel fronte, il Kurdistan, insieme al suo collega David, ma soprattutto si sviluppa poi (almeno così appare, perchè il dramma non è certo solo questo) intorno al dilemma morale derivante dalla serie di foto che i due fotografi al fronte, sono riusciti a scattare - unici testimoni occidentali in un pronto soccorso da campo dove il Dottor Balzani è chiamato a decidere, così sui due piedi, in pochi minuti e a sangue freddo (da qui appunto il titolo Triage che è poi il termine con cui si identifica nei pronti soccorsi il tipo di urgenza dei vari ricoveri, creando così proprio in base ai colori assegnati, una scala di valori e di priorità), il destino finale dei pazienti straziati dalle bombe e dalle granate, in base al cartellino che assegnerà a ciascuno di loro (giallo a chi “merita” di essere curato; blu per coloro che invece si reputa abbiano così poche possibilità di sopravvivenza, da non aver diritto nemmeno all’accesso agli scarsi farmaci disponibili per le cure di prima necessità, e che verranno poi portati moribondi sulla collina, dove lo stesso dottore sparerà il colpo di grazia per cessarne l’agonia) - utilizzate poi - forse un po’ troppo cinicamente – per una serie di copertine destinate a documentare certamente gli orrori della guerra, ma finalizzate anche a consacrare il successo e la notorietà per la temerarietà dell’impresa (soprattutto di colui che “sembra” essere l’unico superstite). Perché da quella guerra, da quell’esperienza devastante tornerà soltanto Mark (la sorte di David resterà a lungo sconosciuta: nessuna sua notizia nemmeno alla moglie in stato di avanzata gravidanza, così che lo immaginiamo sperduto o rifugiato per sua “personale” volontà, in una delle città più prossime alle zone dei combattimenti dopo una frattura fra i due - conseguente a una “accesa” discussione - che li ha condotti a percorrere strade differenti e a prendere ipotetiche decisioni contrastanti), un Mark “dolorante” e schiacciato da uno stralunato disorientamento che lo porta ad innalzare un muro di incomunicabilità tra sé e gli altri (le analogie del tema – persino per quanto riguarda le radici della colpa che genera il disadattamento – con ciò che si racconta nel contemporaneo Brothers, oltre che nella precedente opera Non desiderare la donna d’altro di Susanne Bier, rende addirittura più abissali le differenze, tutte a discapito di Tanovic, naturalmente, visto che nella sua pasticciata e un pò declamatoria “evoluzione” per la definizione dell’enigma, vedremo scendere in campo persino uno spaesato Christopher Lee, anziano psichiatra che ha raggiunto notorietà e fama specializzandosi nel “recupero” dei criminali di guerra del franchismo, chiamato appositamente dalla Spagna per le sue capacità di far riemergere dalle pieghe della mente responsabilità e colpe difficilmente ammissibili persino con la propria coscienza… e scendiamo così direttamente nel terreno minato dello psicodramma cinematografico ovvio e prevedibile (come lo sono le “modalità” interventiste del dottore), che ci fa affondare definitivamente nelle sabbie mobili dell’indifferenza, nonostante la “portata davvero tragica del dramma che si è consumato” ma che a questo punto non ha più nemmeno la forza di incidere sulla nostra consapevolezza critica.
Alla prossima, Tanovic, allora, e speriamo “veramente” che questa volta vada un po’ meglio!!!!
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