Regia di Danis Tanovic vedi scheda film
Il “triage” è una procedura che si basa su tre colori, il blu, il giallo e il rosso. Questi identificano l’entità dell’infortunio dei moribondi, a causa della guerra, in base ai quali possono ricevere soccorso. Il codice rosso indica che non vi può essere alcuna possibilità di guarigione, per cui gli avanzi di guerra vengono finiti da un medico di turno con un proiettile in fronte.
Danis Tanovic ci riporta nella sua no man’s land, di nuovo fra i curdi, dove gli ospedali sono approntati sotto le bombe e a pochi passi dalle mine, e dove il personale e i farmaci restano un miraggio, insieme a tanto altro ancora. Questo nuovo film del regista bosniaco è tratto dall’omonimo romanzo di Scott Anderson, la cui storia é ambientata alla fine degli anni '80. Si tratta della storia di due reporter britannici, Mark e David, che partono alla volta del Kurdistan, lì dove si consuma l'ennesima faida mediorientale, imbracciando la macchina fotografica come unica arma e alla ricerca dello scoop fra pashmerga (Kurdistan) e iracheni, che si ammazzano con le peggiori atrocità. Come i “buoni soldati”, i due fotografi, prima della partenza, lasciano a casa e nella loro dimora naturale (il grembo delle rispettive compagne) il germe di quello che sarebbe stato poi il motivo di vita per entrambi i reporter. Ma non sarà così per tutti e due gli amici. Se solo uno ce la potrà fare a ritornare, è vero anche che la sua guerra personale continuerà anche nella sua casa e nel suo paese d’origine, ma qui in modo peggiore, attraverso gli incubi che non gli daranno più altre visioni o sguardi, se non quelli di morte. Perciò chiederà aiuto ad un analista, anch’egli gran conoscitore delle conseguenze delle guerre, essendo un vecchio strizzacervelli dei fascisti spagnoli.
Il film di Tanovic è diviso letteralmente in due parti, completamente differenti: una prima in cui la crudezza della guerra, appare in tutta la sua bruttura, per mezzo di corpi e carni umane scorticate vive; nella seconda parte, invece, aleggia uno psicodramma, che alla fine finisce per appesantire il film, sebbene qui vi sia l’emozione, ma strappata. Un film che parte benissimo e finisce malissimo, soprattutto perché, per una buona prima parte, tutto ruota intorno alla responsabilità dei media di fronte alla guerra, per poi terminare sulla riabilitazione di un uomo che ha abbandonato un amico al suo atroce destino. Non funziona la sceneggiatura del film, come spesso accade, a causa dell'estremo didascalismo con cui si sviluppa la trama: ogni evento, sensazione, incubo o stato d'animo é raccontato attraverso le parole di chi li vive. E questo non può funzionare a cinema. Altrimenti rimarremmo tutti dinanzi al piccolo schermo per vedere telefilm e quant’altro. Già dal film precedente a questo (L’enfer, 2006), Tanovic ha dimostrato di non reggere all’importanza di aver ricevuto un Oscar, per uno dei film più interessanti sulle atrocità delle guerre, No Man’s Land (2001). In Triage peccano molto anche gli attori protagonisti, da Colin Farrel a Paz Vega, per mezzo di una recitazione troppo sopra le righe. Che senso ha scomodare attori come questi due, insieme ad un grande altro interprete come Christopher Lee? L’impressione è che l’opera sia imperfetta, proprio a causa dell’eccessivo intento di ricercare a tutti i costi una chiusura efficace, che possa dare sostanza al film, in realtà è essa stessa a svilirne l’esito. Tuttavia, questo non mette affatto in dubbio la grandezza di Tanovic, che si rivela, ancora una volta, un regista capacissimo nel raccontare quello che meglio conosce, il dramma della guerra, che è dramma sempre: “la guerra distrugge e fa sempre male, chiunque vi si trovi dentro” è la didascalia che appare all’inizio del film.
Alla fine di questo film è forte la tentazione di rivedersi, invece, uno dei film più belli del 2008, Valzer con Bashir, dove gli incroci fra esperienze di guerra e matrice psicanalitica risultano ben incastrati sotto la lente di ingrandimento e quindi ne deriva grande emozione e coinvolgimento, praticamente quello che manca, ancora una volta, in questo nuovo film di Tanovic. Per emozionarci con i film del regista bosniaco dobbiamo necessariamente ritornare al suo unico capolavoro, No man’s land. In cui appare evidente che ogni domanda sulla guerra ha un’unica risposta.
Giancarlo Visitilli
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