Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film
Si potrebbe commentare che la Storia non è recensibile. Sono in difficoltà: in fondo, non c'è nulla da capire, assai poco da discutere in questo "L'uomo che verrà", che possiede una "oggettività" prorompente, sviluppata dal regista attraverso il rigore dei dialoghi, la nitidezza delle immagini, la veridicità del racconto, l'equilibrio delle parti. Questa la "qualità" dell'opera: tutta nella sua compostezza. Questo però anche il suo limite maggiore: non sapere, almeno non completamente, astrarre ed universalizzare il messaggio. Forse, non aspirare neppure ad un messaggio.
E' un film, innanzi tutto. Ribadirlo pare ovvio, forse non troppo: facile infatti che lo spettatore se ne dimentichi, travolto dalla minuziosità e dalla limpidezza di questo racconto, al limite del documentaristico. La scelta di attrici note mi pare appropriata, in quest' ottica di vero-somiglianza/finzione.
Il titolo è sempre una guida all'interpretazione: non qui. Ed è un bene, perchè senza una direzione predeterminata l'autore dell'opera resta libero di parlare di sé e del significato, a noi mai del tutto chiaro, che egli conferisce a questo uomo che verrà. Nello stesso modo il pubblico è chiamato, attivamente, ad aggiungere il proprio punto di vista personale: ognuno di noi vede infatti un proprio "uomo che verrà": sia esso semplicemente il neonato fratellino della protagonista Martina (o entrambi, nella splendida scena finale); oppure il contemporaneo: testimone e debitore di chi e che cosa l'ha preceduto. O piuttosto e sempre, pessimisticamente, l' uomo: l'uomo che è sempre uomo e che fatica ad apprendere e ricordare; che, coniugato al futuro, non è molto diverso dal tempo passato. Qualunque sia il senso, l'indeterminatezza ne decreta la correttezza: ci libera dalla tremenda oppressione della Storia, dalla "oggettività" straripante della storia. L'incomprensibilità di questo titolo è la chiave interpretativa: ad ognuno trarre le proprie conclusioni.
Nel buio si apre la scena: un'incipit suggestivo e sfumato, che piazza da subito lo spettatore nel tempo e nello spazio della narrazione, con un'evocazione chiara al grembo materno e forse anche al biblico "Fiat lux". La ricostruzione antropologica (linguistica, psicologica, direi pure estetica) e la messa in scena (la scenografia come gli esterni) sono perfette. Siamo sull'Appennino bolognese: più collina, che montagna. Neve copiosa, prati sconfinati e cieli limpidi ai primi tepori. Un paesaggio morbido, di boschi e pianori. Gli echi della città vicini. La vita scorre lenta, seguendo il ritmo delle stagioni e rituali antichi: l' uccisione il maiale (sempre con il primo freddo); la sera in stalla a riscaldarsi con gli animali; la gerla in spalla e giù fino a valle; i giochi dei bimbi con le rane nei torrenti; il vestito "buono" della domenica (o della prima Comunione); la condivisione del pane con i vicini e di una stanza, di un letto con fratelli e genitori. Un mondo quasi scomparso, non nei miei ricordi: la primavera in malga, spiando le prime marmotte, mazzi di "Non ti scordar di me"; l'inverno raccogliendo bucanevi, da lasciare alla "Santella" (italianizzazione dal dialetto) della Madonna con il Bambino. Che ho sentito da nonni e zii: la "monega" nel letto, le storie spaventose di diavoli e streghe attorno al fuoco. Che ho ritrovato qui, nello sguardo nitido ed indagatore di Martina. La morte del fratellino le ha tolto la parola. Eppure il suo è un universo di luce: perchè anche l'orrore è più sopportabile, quando si è piccoli. Ed i bimbi vivono le difficoltà con la leggerezza e la speranza dell'inconsapevolezza. Non è un film triste, questo. Tragico, ma non triste. L'eco della guerra è stato, per molto tempo, quasi impercettibile, in questo angolo lontano di Emilia: la gente di montagna è abituata, in fondo, al sacrificio, alla fame, al freddo, ad una natura che è tanto bella quanto ostile. Però, dopo l'armistizio, la situazione sè in continua evoluzione: i tedeschi, alleati ed invasori, arretrano. Gli alleati, sono ancora degli sconosciuti. Sempre più un conflitto mondiale si trasforma qui in particolare, tra fazioni. Ci sono voluti anni perchè in Italia si avesse il coraggio di chiamarlo con il proprio nome: "guerra civile". La piccola Martina ha difficoltà a capire gli eventi, le motivazioni. Pure gli adulti a dire il vero. Tanti ragazzi stanno sulle montagne e si oppongono allo straniero "Stiamo da vostra parte" dicono ai contadini, ma non è ben chiaro il quadro d'insieme: spesso sono cittadini, a tratti politicizzati. La guerra è guerra: tremenda. Senza esclusione di colpi. E' molto cronaca, nella parte centrale, questo film. Non mancano le "arie" come le definiremmo in musica: tutt'attorno la bellezza è insudiciata dalla violenza. Fino all'epilogo che verrà detto l'eccidio di Marzabotto. La rappresaglia dei tedeschi è cieca: colpisce senza esclusione di colpi donne e bambini, vecchi e uomini, colpevoli di un generico e generale sostegno ai partigiani. Non c'è coscienza, nella spersonalizzazione: se gli esseri umani sono numeri, eliminarne una o mille non fa differenza. Molto è stato scritto a riguardo, in particolare sul regime nazista e la Shoah (Hannah Arendt) ma è evidente che ci sono sviluppi psicologici comuni, in tutti i conflitti (ed in chi li combatte): il comandante che soccorre una ragazza "perchè mi ricorda mia moglie" ma poi uccide a sangue freddo un bimbo che si lamenta, è emblematico. Una delle scene più significative: non tanto e solo per la drammaticità. Martina scappa, ha un istinto di sopravvivenza innato. Non piange, non si lamenta. Agisce. Prende il fratellino, lo nutre, lo copre e protegge. E alla fine, non può far altro che ritornare a casa. Perchè è da lì che verrà l'uomo, un uomo nuovo: dalle radici più profonde. Martina che rompe il silenzio (uno dei protagonisti di questo film. Presenza discreta e pregnante) cantando una ninna nanna: la vita che si rigenera. Malgrado tutto, c'è. Un messaggio di bellezza e di speranza.
Film splendido anche se forse "particolare" nel senso di "circoscritto": ad un evento, ad un luogo, ad un tempo. Può essere che sia anche un mio limite di comprensione ed apprezzamento. Forse anche estetico. Resta uno splendido film, comunque.
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