Regia di Ken Russell vedi scheda film
Circo e balletto. Favola e poesia. Espressionismo e romanticismo. Con questo suo primo mediometraggio, Ken Russell ritorna bambino, alle origini del suo amore per il cinema. Nato nelle sale in cui spesso trovava riparo, insieme a sua madre, quando il padre diventava intrattabile. Quelle immagini enormi, circondate dal buio, amplificavano le suggestioni, soprattutto la sensazione della mostruosità e della paura, che finivano per sovrapporsi impietose all’incanto del fantastico. Come nei suoi precedenti cortometraggi, l’incompiuto Knights on Bikes (1954) e Peepshow (1956), Ken Russell omaggia la fantasia infantile facendola maturare nella dimensione adulta del grottesco, in cui l’immaginazione è sempre un po’ perfida. Un angelo che prima ruba, e poi perde, le proprie ali appese al guardaroba della palestra della scuola, è una figura decisamente paradossale: Amelia è una bambina che fa dell’innocenza una finzione dietro cui si celano la vanità e il desiderio di possesso, e che pure davanti alle conseguenze deleterie del proprio errore non si arrende, e continua imperterrita a sognare. La sua corsa attraverso la città alla ricerca di un nuovo paio d’ali è una sfida contro il mondo, che offre tutto, tranne quell’oggetto così speciale e delicato. L’obiettivo di Ken Russell la segue lungo un percorso animato dall’ansia di scoperta e punteggiato dalla disillusione, da tanti inadeguati surrogati che parlano ad Amelia della mediocrità della vita. La soluzione arriverà, non a caso, in uno spazio separato dal caos della città, ed abitato dal sublime spirito dell’arte e della religione. In questa storia, il cui sviluppo è così pesantemente ancorato al suolo, si avverte una grande voglia di cielo, di volo, di leggerezza. Un affrancamento dalle rigide meccaniche terrene, che può anche significare una liberazione dai limiti imposti dai registri espressivi e dalla classificazione dei generi. Il carillon della prima scena introduce un gioco di bambole danzanti (un tema già presente in Peepshow), che poi si scioglie nella banalità della vita cittadina, in mezzo a strade piene di auto, persone, cani e gatti, fra acrobati caduti in disgrazia e goffe straccivendole. La comica è in agguato, mentre il traguardo da raggiungere si spinge sempre più in alto, verso il regno delle idee, dove tutto è geometria perfetta ed architettura astratta, come una scultura di marmo o una scala che punta all’infinito. Non si capisce se, alla fine del cammino, Amelia trovi Dio sceso in Terra, oppure, semplicemente, una versione purificata dell’Uomo: i suoi occhi di bambina sono certamente colpiti da una visione straordinaria, che le procura un’immensa gioia. A prescindere da ogni interpretazione in senso religioso, che pure - stante l’anima cattolica di Ken Russell - è a portata di mano, ciò che si coglie, in quel finale, è il primitivo senso di magia con cui la semplicità accoglie la meraviglia, e nel quale, probabilmente, si nasconde la chiave di accesso al mistero del miracolo.
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